domenica 31 maggio 2015

PLANORBIS



Presente originariamente in Europa (Italia compresa) e Asia occidentale, è stata introdotta dall’uomo in altri continenti (si possono ora ritrovare in quasi tutti i climi tropicali e temperati del mondo). Popola soprattutto le acque con bassa corrente permanendo nello strato fangoso sul fondo, dove è in grado di sopravvivere anche a periodi di siccità. Predilige acque con ricca vegetazione.
Quella delle Planorbidae è la più grande famiglia di lumache polmonate acquatiche, con specie presenti in tutti i continenti e nella maggior parte delle isole.
Le Planorbis sono piccole lumachine che è facile ritrovare tra le piante di ogni acquario. Il guscio, semitrasparente, è costituito da una conchiglia che si avvolge a spirale piana, in direzione sinistrorsa, e raggiunge una lunghezza di 14 - 17 mm e un'altezza di 3 - 3.5 mm.
A differenza degli altri generi della famiglia Planorbidae, le Planorbis hanno sangue rosso, in quanto riescono a fissare l'ossigeno nel sangue.

Gli habitat della Planorbis in natura sono costituiti da acque stagnanti e ricche di vegetazione, in acquitrini fangosi e ruscelli tranquilli, spesso in pozze d'acqua stagionali, a bassa altitudine.

In acquario, le Planorbis vivono principalmente tra le foglie delle piante acquatiche, nutrendosi principalmente di alghe, ma anche di detriti e avanzi di mangime per pesci.
In genere arrivano come ospiti occasionali, attaccate, loro o le loro uova, alle piante acquatiche che si inseriscono in vasca.
Per la loro abitudine di stazionare sulle piante acquatiche spesso sono accusate di mangiarsele, e si cerca di sterminarle non appena si vede qualche buco su qualche foglia.
In realtà non si nutrono mai, se non in casi del tutto eccezionali (in un acquario normale non si avrà mai una così grande carenza di cibo per queste minuscole lumache), di piante superiori.

Ermafrodita autosufficiente, ovipara, depone fino ad una trentina di piccole uova all'interno di sacche gelatinose trasparenti che, a seconda della temperatura, si schiudono nel giro di 5-10 giorni dando poi origine a nuove microscopiche lumachine già  perfettamente autosufficienti.

E' innocua nei confronti delle piante e degli animali vivi, si nutre di alghe ma più che altro del cibo in eccesso non mangiato dai pesci e di detriti.
Se in acquario sono presenti ciclidi, o botia, o crostacei di discrete dimensioni, le planorbis diventeranno facilmente loro prede.

Non necessita di particolari condizioni per sopravvivere, è un gasteropode molto resistente; si consiglia pH > 7, Gh > 10 e Kh > 5 per evitare l’erosione dei gusci.
- Temperatura: 5 - 30°C
- Dimensioni minime vasca: Essendo molto piccoli, questi gasteropodi possono vivere anche in spazi ristretti, per assurdo sarebbe possibile allevarli anche all’interno di un bicchiere.
 Dagli acquariofili meno esperti, sono considerate “lumachine infestanti”, ma ciò dipende unicamente dall’enorme quantità di cibo che viene messo loro a disposizione. Alimentando eccessivamete i pesci della vasca, questi lasceranno cadere sul fondo molto cibo che verrà assunto dalle Planorbis. Queste si riprodurranno quindi molto prolificamente fino ad “invadere” la vasca. Per evitare ciò e sufficiente alimentare i pesci nella giusta quantità.
Sono considerati animali a rischio di estinzione, sono scomparsi nell’Europa meridionale, in Svizzera e Austria sono considerate specie potenzialmente a rischio, mentre sembrano sopravvivere nei paesi scandinavi (soprattutto Norvegia e Svezia meridionale). Questa loro “estinzione” è molto probabilmente causata dall’uso di pesticidi nell’agricoltura.



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sabato 30 maggio 2015

L' ERBA GAMBERAIA

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Chiamata comunemente erba gamberaia, è una pianta acquatica sommersa, che talvolta può crescere anche sul fango delle rive. Predilige acque stagnanti o a flusso debole, e formano caratteristici ciuffi sulla superficie dell'acqua, dove affiorano i suoi apici.

Sono caratterizzate da fusto strisciante avente foglie che all'apice formano caratteristiche rosette. Le foglie sommerse sono claviformi.

Ha un fusto lungo anche più di 40 centimetri, foglie a stella e peli squamosi.
I fiori sono poco appariscenti, senza calice e corolla, posti all’ascella delle foglie.
Quelli maschili hanno un solo stame, quelli femminili hanno un ovario di due carpelli e due stili.
E’ abbondantemente presente nelle zone umide con acque pulite e portate costanti.
E’ un’erba annuale o perenne che vive completamente sommersa nell’acqua o con la parte superiore galleggiante.
Talvolta può crescere su suoli molto umidi.
Le foglie sono natanti, mentre una parte del fusto e i fiori sono emersi.


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venerdì 29 maggio 2015

RUSPA!!!!!!!!!!!




La ruspa è stata inventata da Robert Gilmour LeTourneau nel 1930.

Spesso, erroneamente, nei quotidiani e nei programmi televisivi viene definita ruspa ogni macchina da cantiere.

La ruspa serve per:
Leggere rimozioni di terreno vegetale, scotico
Costruzione di rilevati in terreno poco ondulato
Scavo e trasporto di terreno molto compatto, anche ghiaioso ma non cementato
Spargimento di materiale a strati di spessore costante
Scavo e trasporto di inerti incoerenti in cave su terreni di origine alluvionale
La distanza di caricamento generalmente è di 30 metri e per essa occorre circa un minuto. Massima resa in cantieri di sterro e riporto con brevi distanze fra i due.

Una ruspa è una macchina per la movimentazione di terra, adatta per lo spianamento superficiale, è in grado di tagliare a spessore il terreno, caricarlo, trasportarlo e scaricarlo. Composta da un rimorchio trainato da un trattore, normalmente entrambi gommati, attualmente a due assi ma storicamente a tre. Il rimorchio ha il cassone mobile, con la parte bassa dotata di un bordo frontale tagliente, che va sostituito periodicamente per l'usura. La tramoggia abbassata taglia il suolo all'altezza voluta, l'inerzia del movimento carica il terreno nel cassone, come una pialla a mano per il legno, dove il truciolo entra nel suo interno e se troppo grande esce da sopra. Quando la tramoggia è piena (da 8 a 34 m3 a seconda del tipo) viene sollevata, e chiusa, ed il contenuto trasportato nel luogo di scarico. Lo scarico può essere posteriore o anteriore. Per lo scarico la tramoggia deve essere abbassata parzialmente senza incidere il terreno. Se lo scarico è anteriore il pannello posteriore della tramoggia, o l'eiettore, è idraulicamente spinto in avanti e il carico cade fuori con uno spessore desiderato, normalmente tra i 20 ed i 30 centimetri. Esistono modelli con un motore solo e normalmente necessitano di un apripista cingolato detto pusher, con la lama più stretta del normale, che spinge da dietro il rimorchio aiutando ad incidere i terreni più duri. Per esempio: Caterpillar D10 pusher. I modelli più pesanti hanno due motori uno guida delle ruote anteriori, e l'altro guida le ruote posteriori con motori fino a 400 kW (536 CV ). Esistono modelli con un sistema di autocaricamento rotante che non necessitano di retro spinta.


Con un preavviso di sfratto di sei mesi, visto che non c’è la bacchetta magica e non si fa niente in quarto d’ora, io preannuncio la ruspa e poi spiano, rado al suolo tutti i campi rom“. Sono le parole del leader della Lega Nord, Matteo Salvini.

Un giorno, quando tutto sarà finito, ripenseremo a queste metafore e questi oggetti - rottamazioni, ruspe e trattori - e forse capiremo meglio ciò che è stato.

Ha ripetuto che «i campi rom vanno rasi al suolo» (ma «educatamente», ha suggerito stavolta, concedendo «perché loro devono vivere come persone normali»). Ha quindi aggiunto: «Non servono i fiorellini, ma le ruspe». La qual cosa sarebbe passata relativamente inosservata, ormai, se non fosse che la frase l’ha pronunciata mentre era davvero, fisicamente, su una ruspa, e poi sorridente e ritto in piedi sulle ruote cingolate, quelle che fanno impazzire i nostri figli piccoli.

Dopo il presidente operaio col caschetto giallo, dopo il sindaco sulla ruspa, dopo il meno memorabile onorevole sul trattore a Montenero, colpisce infine l’ultima incarnazione leaderista, il leghista sovrappeso che esibisce la simbologia dell’uomo contadino, e comunque del popolo, che gli ostacoli li abbatte e spiana (con la ruspa), i nemici li «asfalta» (riecco le ruote cingolate), i dissensi li comprime e li rade al suolo.

Non si sta dicendo naturalmente che le figure qui evocate si equivalgano; ma sulla ruspa, com’è o come non è, finiscono per salirci tutti; screditata e forse inutilizzabile la metafora della trebbiatrice pontina.

Però se non la si sa guidare si finisce così.....a meno che non si usi quella sopra.....



LEGGI ANCHE : http://pulitiss.blogspot.com/2015/05/il-trattore.html

                           http://asiamicky.blogspot.it/2015/02/razzismo-nella-storia.html





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IL TRATTORE

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Il trattore agricolo (dal latino trahere, trainare) è definito come centrale mobile di potenza, è un mezzo utilizzato in agricoltura per trainare un rimorchio o agganciare delle attrezzature specifiche per i lavori agricoli. Appartiene alla famiglia delle macchine agricole semoventi. In meccanica agraria, il trattore è considerato una macchina motrice, mentre le macchine agricole che eseguono i lavori trainate dal trattore (come l'aratro) o agganciate alla sua presa di potenza (come lo spandiconcime) vengono dette macchine operatrici.

Il primo tentativo di costruire un trattore fu dell’Ingegnere militare francese Nicholas Joseph Cugnot nel 1770 alimentato a vapore che però fini distrutto dopo il primo tentativo altri tentativi furono fatti da vari ingegneri come l’italiano Pietro Ceresa Costa, il tedesco Otto Nikolaus che perfezionò il motore a scoppio a quattro tempi.
Un passo importante fu lo sviluppo dei motori in genere con l’invenzione del motore Diesel che prese il nome dal suo inventore Rudolf Diesel (1858 – 1913 ). Altri costruttori progettarono vari modelli come il tedesco Heinrich Lanz, l’inglese john Flower che progettò inoltre la meccanizzazione per aratura a vapore che consisteva in due locomotive stradali situate una di fronte all’altra ai bordi del campo, le quali azionavano un cavo che trascinava da un lato all’altro un aratro basculante.
 
Il trattore a livello industriale è nato nel 1892 negli Stati Uniti e negli anni successivi gli sviluppi tecnici sono stati eseguiti prevalentemente dai costruttori americani.
I primi modelli non erano molto maneggevoli e peraltro molto pesanti. I rapporti peso potenza erano variabili dai 150/250 Kg/CV e quindi 8/9 volte superiori ai trattori prodotti oggi. Il rapporto peso-potenza ottimale per una trattrice è di 40 Kg/CV.
Per fare un esempio una trattrice di 120 CV che pesa 5.400 Kg. Avrà un rapporto peso-potenza di 45Kg. Per CV ovvero 5.400:120= “45”.

In Italia il primo trattore fu costruito a Piacenza intorno al 1790. Più che trattore, era un locomotore a vapore, tutto in ferro e molto pesante. Per trovare il primo vero trattore dobbiamo arrivare intorno al 1870 quando, grazie all’invenzione del motore a scoppio, fu costruito il primo trattore a testa calda,  un trattore con ruote in ferro, due posteriori e una anteriore.
Dopo questa data diverse case italiane iniziarono a costruire i loro trattori con motori a testa calda, alimentati a petrolio o cherosene, per arrivare fino ai giorni nostri con i trattori alimentati a gasolio.                              
Una delle prime fabbriche italiana fu la Landini, presente ancora oggi. Anch'essa iniziò con i motori a vapore, poi con quelli a testa calda, per poi passare intorno al 1920 alla costruzione dei trattori alimentati a gasolio.  
Nel 1928 anche Francesco Cassini aveva progettato il primo trattore italiano con motore diesel, il Cassasi di solo 40 cavalli.
Solo nel 1948 la nuova società Same  iniziò la sua costruzione con il primo trattorino universale il Same 3r/10 con due ruote motrici. Dal 1950 iniziò la produzione vera e propria con il susseguirsi di anno in anno di modelli sempre più nuovi, ma il boom economico avvenne solo intorno al 1965.
La Fiat, nata nel 1899 a Torino ad opera di Giovanni Agnelli e di altri soci, lanciò solo nel 1919 il suo primo trattore, il Fiat 702 con 30 cavalli. In quegli anni, un' officina Fiat, a bordo di un convoglio di tre autocarri, percorse più di 7500Km  e, visitando più di 42 zone agricole, riuscì a vendere ben 236 macchine, tra trattori e attrezzi agricoli. Nel 1929 la Fiat  aveva già raggiunto  una vendita di oltre 1.000 unità annue.
La casa Fiat ebbe il merito di lanciare il primo trattore cingolato europeo: siamo nel 1932. Poi spostò la sua produzione da Torino a Modena e, sempre da questa casa di Modena, nel 1957  con il Fiat 18 (serie) raggiunse il primato del trattore più venduto degli anni ’50.
I primi trattori avevano ruote strette e di ferro, sedili in ferro e poco maneggevoli, ma con l’evoluzione si sono costruiti trattori con ruote sempre più grandi e in gomma, sino ai trattori dei giorni nostri molto confortevoli, maneggevoli e comodi, in grado di affrontare intere giornate di lavoro.
Il trattore a testa calda, per la sua robustezza, affidabilità, economicità nei consumi e nella manutenzione, ha ottenuto un buon successo nella prima metà del secolo scorso. Il "testa calda" è un motore endotermico monocilindrico ad iniezione, così detto perché l'accensione è ottenuta mediante l'utilizzo di una superficie rovente, la testata (definita anche calotta o vaporizzatore). In pratica si scalda il prominente “muso” del trattore, utilizzando una fiamma alimentata con petrolio o benzina, o più spesso un bruciatore a gas liquido. Un tempo, in alcuni modelli, si usava anche la modalità di accensione alternativa, con una piccola cartuccia d'esplosivo inserita nell’apposita fessura della stessa, che si accendeva dando fuoco alla miccia (oppure, con un altro tipo, con una percussione tipo quella di un fucile): l’esplosione che ne seguiva provocava l’avviamento. Perciò era d’uso anche il soprannome di trattore a miccia. Uno dei vantaggi d’uso era la possibilità di usare combustibili molto economici, come il petrolio non raffinato. Questi trattori sono caratterizzati anche da un grosso volano, che gli esperti trattoristi utilizzano, con opportuni movimenti, per aumentare la compressione nella fase di accensione. I motori sono piuttosto rumorosi e, dato il bassissimo numero di giri, emettono un suono inconfondibile. Per gli appassionati è come un suono musicale: si parla di sentir cantare il motore.

I primi motori a testa calda nacquero a fine 1800, a 4 tempi, per passare dopo pochi anni alla modalità a 2 tempi. Richard Hornsby & Son, Grantham UK effettuate primo trattore della storia con motore principale testa calda, Herbert Akroyd Stuart era stato brevettato nel 1891. Il primo trattore italiano di questo tipo fu realizzato nel 1924 dalla Bubba. Seguirono i trattori delle storiche case Landini, OM e Pietro Orsi. Fuori d'Italia, i tedeschi Lanz Bulldog e i polacchi Ursus sono i più noti.

La produzione dei testa calda terminò in Italia nel 1959: ultimo modello l’Orsi O35, costruito in pochissimi esemplari, sfortunato ultimo tentativo dell’azienda di insistere sulla linea dei testa calda quando i concorrenti si erano già defilati, avendo definitivamente preferito più moderni motori diesel. In Argentina e in Polonia furono prodotti dei testa calda anche fino ai primi anni sessanta. Come per gli altri tipi di trattori, esistevano testa calda adatti all’uso prettamente agricolo, originariamente con ruote non gommate, e trattori cosiddetti stradali, usati per il traino di carri anche nelle zone portuali. Sono stati pure costruiti, negli anni cinquanta, alcuni esemplari cingolati, come l'Orsi Anteo. La presenza di grosse pulegge laterali rendeva inoltre questi mezzi adatti alla trebbiatura, con la trasmissione del moto alla trebbiatrice, e da questa alla pressaforaggi (imballatore) tramite un’ampia cinghia. Ancora fino ai primi anni ottanta, in molte campagne italiane, si potevano vedere in esercizio i vecchi Orsi o Landini che trainavano o alimentavano le grosse macchine per la trebbiatura. Tuttora, nelle rassegne di macchine agricole d’epoca sono solitamente presenti, ancora funzionanti, diversi trattori testa calda, tenuti con particolare cura dagli affezionati proprietari.

I trattori, dopo la Seconda guerra mondiale, si sono gradualmente convertiti al motore Diesel (messo a punto da Rudolf Diesel alla fine dell'Ottocento). È questo un motore endotermico ad iniezione di combustibile, che a differenza dal motore a ciclo Otto o volgarmente "a scoppio", viene chiamato ad accensione per compressione o ad accensione spontanea. Nel motore Diesel infatti nel cilindro viene immessa sola aria, che viene poi compressa adiabaticamente nella fase di compressione. È a questo punto che viene iniettato il combustibile (gasolio) che, a causa delle elevate temperature raggiunte dalla compressione dell'aria, si incendia spontaneamente favorendo la combustione e cedendo lavoro allo stantuffo.

Il motore Diesel si è affermato poi maggiormente negli anni cinquanta divenendo affidabile, economico, robusto e veloce.

All'inizio degli anni sessanta la quasi totalità di trattori europei prodotti presenta un motore Diesel veloce, abbandonando per sempre il testacalda ed il motore a petrolio.

Il primo trattore con motore diesel è stato il trattore tedesco Benz-Sendling BS 6, introdotto nel 1922. Il primo trattore italiano equipaggiato con un motore diesel era il Cassani 40CV, realizzato dal giovane Francesco Cassani nel lontano 1928, che nel 1942 fonda a Treviglio (Bergamo) la SAME.


La produzione di queste macchine coincide con l'inizio dello sviluppo industriale italiano.

È la Landini, una delle prime fabbrica di trattori in Italia fondata nel 1884, a lanciare la meccanizzazione delle lavorazioni agricole, affidate fino a quel tempo solo alla fatica degli animali e dell'uomo, inizialmente con locomobili a vapore, dal 1910 con motori testacalda, quindi dal 1928 con trattori sempre testacalda e dagli anni sessanta con i motori diesel.

Nei primi anni del XX secolo nascono altre aziende che producono trattrici ed attrezzature agricole per la lavorazione del terreno. È in questo periodo che nasce la Pavesi P4 a 4 ruote motrici e la Fiat Trattori, che con il modello 25R del 1951 divenne uno dei primi produttori di trattori in Europa. La maggior parte è concentrata ancora oggi nella pianura padana.

In tempo di guerra 1942 sono sorte nuove case costruttrici di trattori tra cui la SAME (Società Accomandita Motori Endotermici).

Nell'immediato dopoguerra l'assoluta penuria di trattori e la relativa abbondanza di mezzi in origine militari, fece sì che nelle zone agricole il fabbro di paese provvedesse al montaggio di pezzi staccati (motore, telaio, cambio ecc) che presero il nome confidenziale di carioca, mentre in linguaggio burocratico vennero definiti derivati. Da tale esperienza sorse la Lamborghini Trattori nel 1948, oggi facenti parte della nuova multinazionale italiana SAME Deutz-Fahr, a cui appartiene anche la svizzera Hürlimann (acquistata nel 1977), che si colloca al quarto posto nella graduatoria mondiale dei costruttori di trattori.

La Fiat ancora oggi con la sua controllata CNH, controlla una fetta importante del mercato agricolo.

Nel codice della strada è chiamato anche trattrice agricola.

« Le macchine agricole sono macchine a ruote o a cingoli destinate ad essere impiegate nelle attività agricole e forestali e possono, in quanto veicoli, circolare su strada per il proprio trasferimento e per il trasporto per conto delle aziende agricole e forestali di prodotti agricoli e sostanze di uso agrario, nonché di addetti alle lavorazioni; possono, altresì, portare attrezzature destinate alla esecuzione di dette attività. »
(Codice della strada, Art.57)
« 1) trattrici agricole: macchine a motore con o senza piano di carico munite di almeno due assi, prevalentemente atte alla trazione, concepite per tirare, spingere, portare prodotti agricoli e sostanze di uso agrario nonché azionare determinati strumenti, eventualmente equipaggiate con attrezzature portate o semiportate da considerare parte integrante della trattrice agricola; »
(Codice della strada, Art.57)
La progettazione e la costruzione sono studiati per l'uso specifico al di fuori delle normali strade, pur essendo sottoposto a regolare immatricolazione e di conseguenza targato ed in grado di effettuare trasferimenti sui normali percorsi viari.

Ne esistono in commercio di diversi tipi e modelli a seconda delle condizioni di lavoro e della potenza richiesta. Esistono modelli gommati, cioè con ruote di gomma e cingolati (trattore a cingoli), vengono scelti in un modo o nell'altro in base alle condizioni del terreno e al tipo di lavorazione richiesta. I trattori storici anche detti " d' epoca" per poter circolare su strada, devono assoggettarsi alle prescrizioni imposte dal Codice della Strada alle macchine agricole.

La stessa impostazione generale del mezzo utilizzato in agricoltura è stata utilizzata anche per usi in altri ambiti specifici, ad esempio come mezzi trainanti vagoncini nel caso del R.C. Leprotto.




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IL SALAME BERGAMASCO



Il salame della bergamasca è un prodotto tipico della provincia di Bergamo.

Le sue origini sono molto antiche. Nel secondo dopoguerra abbiamo fonti che ci ricordano che veniva utilizzato anche come mezzo formale di pagamento.

Il prodotto è legato alle particolarità climatiche della provincia di Bergamo, dove la forte umidità ha impedito lo sviluppo di altri salumi, come il prosciutto. Per questo è stato “creato” un prodotto come il salame bergamasco che potesse essere stagionato anche a lungo (oltre i 90/100 giorni) in queste condizioni. La sua caratteristica peculiare è quella di utilizzare tutte le parti del maiale, anche quelle più nobili che in altre regioni sono utilizzate per i prosciutti, le coppe o i culatelli e quindi non avere necessità di inserire altri tipi di carni, come quelle bovine. Un'ulteriore caratteristica è quella di provenire da un suino pesante (quello che da sempre si adatta meglio all'economia del territorio per resa e qualità), alimentato esclusivamente con i cereali facilmente coltivati nella zona, come il mais.

È difficilmente acquistabile al di fuori della provincia di Bergamo e i migliori sono ancora artigianali. È comunque in corso un progetto per l’etichettatura di qualità del prodotto.

Nella realtà contadina era una rarità, infatti, lo si produceva solo una volta all’anno quando si ammazzavano i maiali ingrassati per mesi e mesi; veniva poi custodito attaccato al soffitto, al fresco delle cantine, dove il budello posto a protezione dell’impasto si arricchiva di quelle muffe che da sempre rendono unico e squisito questo prodotto.
Viene realizzato con carni fresche di maiale. La sua caratteristica principale è di utilizzare tutte le parti del maiale: la parte magra proveniente dalla coscia, spalla e coppa e la parte grassa proveniente invece dal sottogola o panettone. Il tutto deve essere macinato.
All'impasto vengono poi aggiunti pepe nero, vino rosso, spezie e aglio fresco pestato e messo in infusione nel vino, per conferire al salame un gusto e un aroma del tutto particolari. L’impasto viene insaccato in budelli naturali di suino e quindi legati a mano.
La stagionatura avviene in luoghi freschi e areati. È in questo periodo che sul budello si forma la caratteristica muffa di colore che varia dal bianco al grigio, fino al verde.
Il prodotto finito ha la forma cilindrica, con diametro superiore a 7 cm e pesa all’incirca un chilogrammo. La pasta è compatta e il grasso è ben amalgamato alla carne, ha una consistenza pastosa più compatta con l’aumentare del periodo di stagionatura. Il suo sapore è delicato e il suo gusto è dolce-salato; il suo aroma è leggermente profumato d'aglio.

Il salame migliore è quello fatto con un maiale nostrano, questa è la prima regola del masader,  salame termine bergamasco che indica colui che fa il salame. Il maiale allevato viene macellato quando pesa intorno ai 300 kg, mentre la media nazionale di macellazione è di circa 180 Kg. Per arrivare a quel peso il maiale deve avere più di un anno, e questo è molto importante perchè solo un maiale ben maturo può avere un perfetto equilibrio tra massa magra e grassa, con la carne che ha raggiunto la consistenza ed il sapore giusti per farne un buon salame. Certo, allevare un maiale per oltre un anno costa, tanto più se viene alimentato in modo genuino, ma il risultato è impagabile.

Le carni adoperate sono le parti più nobili del maiale: coscia, lonza, filetto e coppa. Il grasso, che non supera il 20% per ottenere un salame considerato di tipo magro, è esclusivamente quello della parte più pregiata, la pancetta. Con le parti restanti del maiale si fa il sugo per le tagliatelle.
Come conservanti si mette solamente sale marino e pepe nero, che garantiscono una conservazione naturale del salame. Infine la stagionatura segue lentamente i suoi ritmi in una vecchia cantina in maniera del tutto naturale.

Trovare oggi un salame fatto "a punta di coltello" è difficile cioè realizzato con carni lavorate solo con il coltello, tagliate a mano e non tritate a macchina. Questo antico metodo di lavorazione impegna per una giornata quattro persone, aventi ognuna il proprio compito: tagliare la carne, mescolare l'impasto, insaccarlo e legarlo.
Il pregio maggiore del taglio a punta di coltello è che non scalda, non strappa e non schiaccia le fibre della carne, mantenendo inalterate le caratteristiche organolettiche, e soprattutto ottiene un sapore irraggiungibile con altri sistemi di lavorazione.
BUON APPETITO!!!!!!!!


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giovedì 28 maggio 2015

IL TRIFOGLIO

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Il trifoglio pratense o violetto è senz’altro da tempo una delle leguminose foraggere più diffuse in Europa ed in alcuni Paesi del vecchio continente raggiunge estensioni di alcune centinaia di migliaia di ettari.
In Italia, comunque, la coltura pura di questa leguminose da prato è andata progressivamente perdendo di interesse nel corso degli ultimi venti anni.
Di non antichissima coltivazione, il trifoglio pratense giunse in Europa probabilmente attraverso la Spagna e, di qui, si estese alla Francia, alla Germania ed ai Paesi Bassi.
Già conosciuto come pianta foraggera, il trifoglio pratense non fu però mai estesamente coltivato e assurse a pianta di primaria importanza solamente quando, introdotto in Inghilterra verso la metà del 1600, venne inserito nell’avvicendamento in sostituzione del maggese nudo. Le conseguenze di tale accorgimento furono duplici: da un lato esso provocò un sensibile aumento delle disponibilità foraggere e, dall’altro, grazie alla sua capacità azotofissatrice ed al conseguente arricchimento del tenore in azoto del terreno, consentì un incremento di tutta la produzione agraria.

Il sistema radicale del trifoglio pratense è costituito da un piccolo fittone molto ramificato, per cui è piuttosto superficiale. Gli steli sono eretti, ramificati, cavi, alti fino a 0,8 m. le foglie sono trifogliate, con foglioline ovali a margine intero, recanti sulla loro faccia superiore una banda a V di colore verde chiaro. Le infiorescenze sono globose, a capolino, composte da numerosi (80-100) fiori piccoli, tubolari, di colore roseo più o meno intenso, tendente al violaceo. La fecondazione, esclusivamente incrociata, è assicurata da insetti impollinatori (api, bombi).
Il frutto è un piccolo legume uniseminato, i semi sono piccoli (1000 pesano 1,6-1,8 g), di forma quasi a pera (globosa da una parte, più sottile dalla parte opposta), di colore brillante giallo con sfumature di violetto variabilissime da seme a seme e da una parte all’altra di uno stesso seme.
Il trifoglio pratense è specie fisiologicamente poliennale, in pratica, però, si comporta come una specie biennale, in quanto alla fine del 2° anno quasi tutte le piante sono morte o per siccità o per attacchi di funghi. Pertanto il trifoglio pratense nei paesi dell’Europa meridionale dura in coltura soltanto due anni, solo nel Nord-Europa le varietà locali durano 4-5 anni.

Il trifoglio pratense ha un’area di distribuzione più settentrionale di quella dell’erba medica, in quanto resiste meglio al freddo, ma non si adatta ai climi caldi e siccitosi per il suo apparato radicale piuttosto superficiale.
Quanto al terreno, preferisce quello di medio impasto, fresco, sopporta bene terreni umidi, molto pesanti, poco calcarei, acidi (pH 5-7,5, optimum 6-7), inadatti all’erba medica.
Il trifoglio pratense è un’ottima coltura miglioratrice che, perciò, è adatta a seguire e precedere il frumento o un altro cereale affine. È impossibile coltivare trifoglio pratense su un terreno che lo abbia ospitato poco tempo prima, perciò è assolutamente indispensabile che il trifoglio pratense entri in rotazioni lunghe, nelle quali cioè passi un lungo periodo (almeno 5 anni) tra due colture successive di questa leguminose.
Data la brevità del ciclo produttivo e la lentezza del suo sviluppo nel 1° anno, non c’è convenienza a seminare il trifoglio pratense in coltura specializzata, in Italia la tecnica normale era la semina in bulatura in mezzo ad un cereale, ma con la coltura intensiva del frumento scarse sono le possibilità di sopravvivenza della leguminose in esso traseminata.
L’epoca più usuale per la semina è febbraio-marzo, per la semina si adoperano 30-35 Kg/ha di seme.
Nel trifoglio pratense la fecondazione incrociata è la regola assoluta in quanto le piante sono totalmente autoincompatibili.
In ogni regione esistevano popolazioni locali (“ecotipi”) ben adattati alle condizioni d’ambiente particolari. Oggi possono essere commerciate solo varietà selezionate. Ecotipi italiani rinomati sono stati il Bolognino o Pescarese, lo Spadone.
La produzione nel 1° anno è scarsissima, si hanno solo stoppie inerite che, al massimo, possono essere sfruttate con un prudente pascolamento. La produzione piena, falciabile, si ottiene solo nel 2° e ultimo anno in cui il prato dà due ottimi sfalci, uno a metà maggio, l’altro a fine giugno, solo in ambienti e annate molto favorevoli talora può aversi un modestissimo terzo taglio.
Le rese in fieno sono di 5-6 t/ha. Un fieno ottimo di trifoglio violetto tagliato a inizio fioritura ha un contenuto di s.s di 86% circa, di protidi grezzi del 17-18% (su s.s.) e un valore nutritivo di 0,6-0,65 U.F. per Kg di s.s.
Il seme di trifoglio pratense si produce sul 2° taglio: le produzioni sono basse (100-200 Kg/ha) e sono rese molto aleatorie da parecchie difficoltà: scarsità di insetti impollinatori, attacchi di insetti (Apion pisi), allettamento, sgranatura.

Data la sua proprietà di antagonista dell'Ambrosia, pianta infestante della famiglia delle Compositae in rapida diffusione in molte zone del nord Italia, la semenza di trifoglio viene usata in aggiunta alle granaglie per il controllo della diffusione dell'Ambrosia nelle zone agricole.

Sono molto interessanti le proprietà medicamentose della pianta: dal trifoglio si estraggono ormoni vegetali (fitormoni), in particolare estrogeni, validi per rallentare l'invecchiamento di cute e mucose. Tali estrogeni inoltre sono efficaci per disturbi caratteristici delle donne in menopausa, quali vampate, depressione, osteoporosi, malattie cardiovascolari.  In anni recenti gli ormoni estratti dal trifoglio si sono rivelati utili anche nell'impiego contro l'ipertrofia prostatica.
Diversi studi dimostrano che l'assunzione di un estratto titolato in isoflavoni di trifoglio (6-8%), una volta al giorno per 12 settimane, comporta una significativa riduzione dei problemi vasomotori e del sistema nervoso centrale in donne in menopausa.
Il trifoglio si potrebbe inquadrare come il più potente fitoestrogeno naturale.
Evitare l'assunzione di preparati di trifoglio in caso di tumori estrogeno-dipendenti, attuali o prefressi, od ipersensibilità accertata verso uno o più componenti.
Il trifoglio è da sempre conosciuto per la dolcezza del proprio nettare che attira ogni genere di insetto. Numerose sono le proprietà attribuite al trifoglio e vanno dal potere calmante degli infusi ricavati con le foglie della pianta, utili soprattutto contro i mali di stagione, all'efficacia come antidoto per il veleno. Il trifoglio è considerato il simbolo della fertilità; esso è infatti in grado di sintetizzare l'azoto atmosferico nel terreno restituendo allo stesso la fertilità.
Inoltre, l'odore di trifoglio è dolce e gli studi hanno dimostrato che induce una sensazione di calma, cosa che va ad aggiungere altro simbolismo associato al trifoglio/ quadrifoglio.

Gli antichi celti veneravano il trifoglio per via dei suoi tre lobi, poiché possedevano una comprensione della natura che aveva generato molte credenze basate sulle triadi, così come si può notare nel Triskellion, la tripla spirale, la triquetra, il marchio del druido e i vari nodi illustrati dagli artisti celti. La triade indicava sia la divinità che il tempo, che l'equilibrio tra le varie energie, come la mente, il corpo e lo spirito. A un livello più materiale, i popoli d'Irlanda, videro nel trifoglio una fonte di cibo per il bestiame, poichè è molto abbondante su tutto il suo territorio.
Il significato simbolico del trifoglio ha la sua popolarità in Irlanda, cosa acquisita intorno al V secolo, periodo nel quale San Patrizio cercava di assoggettare la gente abitante del luogo al cristianesimo. Per ricollegare la Santa Trinità alle credenze antiche, San Patrizio usò il simbolismo della natura del trifoglio poiché era una pianta molto diffusa sulle colline irlandesi stabilendo così un dialogo con gli abitanti di Irlanda di allora, riuscendo a "abbindolare" molti che, più per comodità che per altri motivi di fede, accettarono la nuova religione che sostituì piano piano le vecchie credenze locali. San Patrizio era un fervente credente della religione cristiana e voleva portare la parola di quello che credeva Dio alle genti di Irlanda, uso abilmente i simboli di natura per riuscire nei suoi propositi anche perché la natura era la base delle antiche religioni.

Il botanico Caleb Threlkeld scriveva appunto nel 1726:

“Questa pianta viene usata come decorazione per i capelli ogni anno nel giorno del 17 Marzo (conosciuto come St. Patrick’s Day). Ciò avviene in base alla crednza che questo vegetale sia stato usato dal santo per spiegare il mistero della Santissima Trinità. Comunque sia, quando gli irlandesi indossano il loro Seamar-Oge, sono soliti eccedere con il liquore, cosa che non si addice al giorno del Signore; questo errore generalmente porta infatti alla sregolatezza.”

In conclusione della festa gli irlandesi erano soliti brindare con il rituale conosciuto come drowning the shamrock: il trifoglio, estratto da capelli o copricapi, veniva posto nel bicchiere con l’ultimo sorso di whiskey. Una volta brindato e bevuto, si diceva portasse fortuna estrarre il trifoglio dal bicchiere e gettarlo dietro la propria spalla sinistra.

Ma esiste un’altra teoria che ipotizza il primo accostamento del trifoglio alla tradizione irlandese.

Nel 1571 Edmund Campion, celebre studioso inglese di epoca Elisabettiana, scriveva che il trifoglio in Irlanda era comunemente usato come alimento. In realtà gli irlandesi non si cibavano di trifogli ma di acetosella dei boschi, una pianta simile al trifoglio largamente utilizzata in farmacia e nella cucina del medioevo come condimento o per dare sapore a zuppe e minestre.

Nella letteratura scientifica dei secoli successivi si possono trovare numerosi riferimenti alla presunta usanza degli irlandesi di nutrirsi di trifoglio. Molti studiosi britannici facevano infatti del loro peggio per ostentare la bestialità degli Irish contrapposta alla presunta civiltà inglese. Gli irlandesi, alla stregua dei neri africani, diventavano così selvaggi mangiatori di trifogli, stupidi, analfabeti e talvolta persino cannibali agli occhi dell’aristocrazia britannica, abituata a giustificare con questo genere di razzismo “scientifico” la propria politica di repressione coloniale.

Il trifoglio fu adottato come simbolo della lotta per l’indipendenza irlandese a partire dal 18° Secolo, alla stregua della rosa rossa inglese, del cardo scozzese e del porro gallese.

Le prime bandiere sulle quali si vide comparire lo shamrock furono quelle degli Irish Volunteers, che iniziarono a portare con orgoglio sulle proprie divise i trifogli simbolo d’irlandesità. Si trattava di un gruppo armato di volontari che sfruttarono il momento vantaggioso della Guerra d’Indipendenza Americana per ergersi a difensori dell’isola d’Irlanda nei confronti della minaccia di un’invasione francese o spagnola (essendo l’isola priva di difese in seguito all’invio oltreoceano delle milizie inglesi), facendo al tempo stesso pressioni independentiste sul Parlamento britannico.

Fu proprio negli ultimi secoli, con il crescente fervore per la volontà di veder nascere una Repubblica d’Irlanda, che lo shamrock divenne famoso in tutto il mondo.

Al giorno d’oggi è tuttora simbolo di diversi battaglioni dell’esercito britannico (come le Irish Guards e il Royal Irish Regiment).

Una curiosità: la divisa scelta dal Principe William per le sue nozze con Kate Midleton è quella delle Irish Guards, di cui è colonnello.

Sul colletto si potevano infatti notare due ricami bianchi a forma di trifoglio.

Lo shamrock è divenuto anche simbolo di numerose organizzazioni, società e squadre sportive.
Il trifoglio riuscì con i suoi tre lembi, a rappresentare il Figlio, il Padre e lo Spirito Santo, ma prendendo anche simbolicamente le tre virtù della teologia che si si trovano in Corinzi 13:13 nella Bibbia, ovvero fede, amore e speranza. Sembra che questo modo di insegnare la fede cristiana prese piede tra la comunità, perché fino ad oggi il significato del trifoglio è diventato l'icona di San Patrizio e la sua passione religiosa.

A volte (circa 1 su 10.000) i trifogli possono avere quattro foglie, questi vengono comunemente chiamati quadrifogli e considerati dei portafortuna.

Tuttavia il quadrifoglio non va confuso con l'Oxalis tetraphylla o l'Oxalis Deppei, che ha 4 foglioline per morfologia. Le foglie del quadrifoglio sono più arrotondate e allungate; la forma a "cuore" è invece caratteristica delle Ossalidi, sebbene sia quella erroneamente associata nell'immaginario collettivo al simbolo portafortuna e sebbene queste piante vengano coltivate e vendute come quadrifogli, in quanto questo è comunque il nome comune delle due specie.
Anche la Marsilea quadrifolia, una felce acquatica, può essere scambiata per un quadrifoglio.

In inglese ed in francese l'equivoco è evitato almeno sul piano linguistico, poiché in queste lingue esso viene definito in modo più puntuale, rispettivamente, four-leaf clover e trèfle à quatre feuilles, ossia trifoglio a quattro foglie. La quarta foglia di un vero quadrifoglio, inoltre, è generalmente più piccola rispetto alle altre.

I cercatori di quadrifogli fanno notare che determinati suoli sembrano più adatti ad ospitarne degli esemplari ed attribuiscono ciò all'inquinamento, alla composizione del terreno e ad altri fattori ambientali. Se siano questi ultimi o quelli genetici a dare origine al quadrifoglio è argomento controverso.

Si stima che il rapporto tra trifogli e quadrifogli sia di 10.000 a 1. Si possono trovare, in casi ancor più eccezionali, dei trifogli con più di quattro foglie; il numero massimo è stato cinquantasei, secondo il Guinness dei primati.

A causa della sua rarità in molte culture si ritiene che trovare o ricevere in dono dei quadrifogli sia di buon auspicio, tanto che secondo alcune credenze popolari metterne uno sotto il cuscino propizi bei sogni. Sempre secondo altre credenze popolari, ogni foglia rappresenterebbe qualcosa: la prima è per la speranza, la seconda per la fede, la terza per l'amore e, ovviamente, la quarta simboleggia la fortuna. Per i Druidi il quadrifoglio era potente contro gli spiriti malvagi. Il più antico riferimento letterario al quadrifoglio sembra risalire al 1620, con la prima attestazione di quest'ultimo come portafortuna.

Attenzione, però! Calpestare un quadrifoglio porta sfortuna.....

Il significato del trifoglio e dei quadrifogli nei sogni indica crescita, guadagno finanziario,  successo,  buona salute e  realizzazione dei propri propositi. Ciò è in gran parte dovuto al suo colore, perché il verde è tipicamente quello che indica raffinatezza, benessere e soddisfazione ( anche il verde è considerato un colore portafortuna).




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IL FORAGGIO

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Il foraggio è qualsiasi sostanza usata per alimentare il bestiame domestico. Si hanno foraggi allo stato naturale (foraggi freschi o verdi) e foraggi conservati. Il più comune foraggio verde è l'erba dei pascoli, degli erbai e dei prati naturali o quella dei prati artificiali: i primi forniscono trifoglio, erba medica o lupinella, che può essere consumata in loco dagli animali pascolanti; i secondi avena, segale, favetta, colza, veccia, ecc., che vengono tagliate, raccolte e somministrate fresche al bestiame. Anche il fogliame di vari alberi (gelso, olmo, pioppo), varie radici carnose (rapa, barbabietola, carota) e tuberi (patata, topinambur) si possono considerare foraggi verdi e così pure molte specie di frutta. I foraggi conservati sono costituiti principalmente dai fieni e dagli insilati: i primi si ottengono con l'essiccazione delle medesime erbacee usate anche fresche (salvo alcune), alle quali si aggiunge sale pastorizio nella quantità di 1-1,5 kg per q, che agisce come antifermentativo e condisce il foraggio rendendolo più appetibile. Oltre che all'essiccamento si può ricorrere alla disidratazione, che si ottiene esponendo le erbe, per breve tempo, a temperature elevate (700-800 ºC), trasformandole, in tal modo, in farina e conservandone intatto il potere nutritivo. Gli insilati si ricavano da vari tipi di erbe, non adatte a essere essiccate, e da grani, radici, tuberi, ecc.. Altri metodi per la conservazione del foraggio sono i cosiddetti fieno-silo ed erba-silo: il primo consiste nello stratificare e comprimere l'erba parzialmente essiccata in appositi sili ponendovi sopra un coperchio con pesi. Questo foraggio deve essere usato dopo 40 giorni. Il secondo consiste nello stratificare, nei sili, l'erba fresca sempre comprimendola con un coperchio su cui siano stati posti dei pesi. Il fondo del silo, però, deve avere un pozzetto per la raccolta dei liquidi. Il foraggio deve essere consumato dopo 40 giorni e rapidamente. Si utilizzano come foraggi anche diversi altri prodotti, come le foglie di varie Leguminose coltivate, gli steli dei cereali, le pule, oppure i residui di alcune lavorazioni industriali (polpe delle bietole, sanse delle olive private del nocciolo, vinacce) e anche sostanze di origine animale (sangue secco, farina di carne e di pesce, siero di latte). Il potere nutritivo del foraggio è assai diverso a seconda dei materiali di cui è composto; le erbe (e quindi il fieno) delle Leguminose, per esempio, hanno potere nutritivo maggiore di quello delle Graminacee e di altre specie; in generale, i foraggi verdi posseggono valore nutritivo assai più alto dei relativi fieni, dei quali sono anche più digeribili, mentre gli insilati conservano in buona parte le caratteristiche alimentari proprie dei vegetali freschi. In ciascun foraggio il valore nutritivo dipende dal contenuto di sostanze assimilabili, in primo luogo gli idrati di carbonio (zuccheri, grassi) e le sostanze proteiche; in misura inferiore devono essere presenti anche varie sostanze stimolanti o integrative (sali minerali, vitamine, ecc.); anche i fattori organolettici, che rendono gli alimenti più appetibili, hanno la loro importanza nella valutazione di un foraggio. Il foraggio usato per gli animali da latte, infine, deve essere privo di sostanze capaci di trasmettere al latte odori o sapori sgradevoli.

Per avere un'idea dell'importanza della produzione foraggera, basti considerare che circa 1/3 della superficie agraria dell'Italia è destinata a colture foraggere e che quasi tutte le altre colture danno quantità non trascurabili di prodotti aggiunti o sottoprodotti utilizzabili come foraggi.

Il valore dei diversi foraggi dipende essenzialmente dalle quantità di sostanze nutritive digeribili che ciascuno di essi contiene. In misura minore, ma non trascurabile, sul valore dei foraggi influiscono anche le qualità organolettiche, per le quali riescono più o meno graditi al bestiame, e altresi il contenuto di sostanze stimolanti e integrative delle loro proprietà nutritive, quali sono gli enzimi di diverse specie. Le numerosissime sostanze nutritive contenute nei foraggi appartengono a due gruppi principali, ossia sostanze proteiche e affini; sostanze carboidrati e grassi. Secondo le diverse specie d'animali e la speciale produzione che da essi si esige, nonché secondo l'intensità produttiva cui gli animali stessi vengono sottoposti, deve variare non solo la complessiva razione alimentare, ma anche il rapporto fra le sostanze digeribili nei due gruppi suddetti. In certi casi giova un rapporto nutritivo stretto, per esempio 1:2; in altri casi è preferibile un rapporto largo, per esempio 1:6. Per ottenere razioni corrispondenti al voluto rapporto nutritivo conviene fare appropriati miscugli di foraggi diversi, oppure, nella foraggiata giornaliera, alternare opportunamente diverse specie di foraggi. Poiché le sostanze del primo gruppo hanno valore considerevolmente superiore a quelle del secondo gruppo (specialmente ai carboidrati che ordinariamente prevalgono di gran lunga sui grassi), vengono maggiormente apprezzati i foraggi ricchi di sostanze proteiche e affini digeribili. Per confrontare i diversi foraggi in base al loro valore nutritivo, che dovrebbe essere proporzionale, almeno approssimativamente, al loro prezzo commerciale, gli zootecnici usano diversi modi. Il più antico, e ancora molto usato, è quello di considerare come foraggio tipo il buon fieno di prato naturale e d'indicare per ciascuno degli altri foraggi la quantità ritenuta equivalente per effetto nutritivo (specialmente per il contenuto in sostanze azotate) a 100 di detto fieno di prato naturale.

Altro metodo di valutazione dei foraggi è quello di O. Kellner, secondo il quale per ciascun foraggio il complesso delle sostanze nutritive digeribili viene computato in equivalenti d'amido per cento di foraggio. Recentemente ha acquistato credito fra gli allevatori di bestiame un altro metodo col quale ai diversi foraggi si attribuisce un congruo numero di unità foraggere commerciali. Tale unità foraggera corrisponde all'entità alimentare di un chilogrammo di orzo, la quale a sua volta corrisponde a quella di circa kg. 2,400 di buon fieno di prato naturale. Ciò in base all'esperienza pratica.

Naturalmente nella scelta dei foraggi per comporre le razioni bisogna tener presente anche l'opportunità d'evitare la somministrazione di foraggi grossolani a bestiame molto giovane e a bestiame sottoposto all'ingrassamento. Inoltre conviene comporre le razioni compensando i foraggi a basso contenuto di principi nutritivi digeribili con altri foraggi che siano invece più o meno concentrati; ciò allo scopo di formare complessivamente una massa alimentare che rappresenti un carico ben proporzionato alla capacità del ventricolo e alla potenzialità digestiva dell'animale.

Il foraggio rispondente alla voluta relazione nutritiva viene poi distribuito a ciascun capo in quantità proporzionata al suo peso vivo; per i bovini adulti la più conveniente razione, riferita a foraggio secco all'aria, è di circa kg. 2,500 per quintale di peso vivo e per giorno. Se la razione fosse costituita esclusivamente di buon fieno di prato naturale, basterebbe la quantità di circa kg. 1,700 al giorno, sempre per ogni 100 kg. di peso vivo.



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LA MACCHINA PER SCRIVERE

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Fin dall'epoca preistorica l'uomo ha avvertito un bisogno insopprimibile di comunicare ai suoi simili le idee e i pensieri che riusciva ad immaginare nella sua mente. Dapprima con figure approssimate dipinte, poi con tratti piu' scuri scolpiti nella roccia e infine con i primi segni astratti, simboli incisi nelle tavolette d'argilla della civiltà sumerica (c.a. 3000 anni A.C.). Piu' tardi gli strumenti di comunicazione divennero i pannelli degli orientali, poi gli stiletti dei romani e, in secoli piu' vicini al nostro tempo, le penne d'oca e i pennini d'acciaio. L'invenzione della stampa a caratteri mobili attorno al 1450 fece intravedere il vantaggio di usare una scrittura basata su forme e simboli semplici, geometrici di comprensione immediata, ripetibili all'infinito in modo facile e veloce per esigenze individuali, personali.
Da questo momento molti ingegni  si sforzarono di costruire un dispositivo con tali caratteristiche con l'obiettivo di moltiplicare, i supporti materiali del pensiero e la sua diffusione a un numero sempre maggiore di persone con l'effetto risultante a catena di moltiplicazione anche delle idee e del pensieri stesso. Solo nel 1855 pero' l'avvocato novarese Giuseppe Ravizza potè brevettare quella che si puo' chiamare la prima macchina per scrivere nota come "cembalo scrivano" e costituita da quasi 600 pezzi di legno e un centinaio di ottone.

La storia delle macchine dattilografiche data da oltre due secoli, si confonde con quella delle macchine per ciechi e per stenografare, è intramezzata da invenzioni di pantografi e macchine scriventi (automi). L'idea di sostituire alla scrittura a mano quella con la macchina sorse dapprima a favore dei ciechi. Dal romano Rampazzetto che, primo al mondo, nel 1575 cercava di farli corrispondere coi veggenti per mezzo d'una speciale scrittura tattile, alla macchina dell'oculista genovese Cereseto, alla germanica Picht, molti ne ricercarono la soluzione. In quasi tutti i paesi si ebbero precursori, fra i quali troviamo molti e importanti gl'italiani. Di una primissima macchina ci dà notizia il brevetto inglese preso nel 1713 da Henry Mill, ma non fu mai fabbricata; una rudimentale, a caratteri tipografici, fu preparata nel 1808 da P. Turri; segue il tachigrafo di Pietro Conti da Cilavegna (1823), la prima a tasti e leve scriventi; poi il typograph dell'americano William Austin Burth (1829), quindi la plume ktypographique del francese Xavier Progin (1833) con le leve disposte in cerchio.
Il vero precursore della macchina moderna fu, però, il cembalo scrivano ideato verso il 1837 da Giuseppe Ravizza avvocato di Novara, brevettato nel 1855-56 ed esposto a varie mostre di quegli anni, come è stato messo in luce dal Budan. Il cembalo scrivano batte vie assolutamente nuove, accolte da tutti coloro che sino verso il 1900 costruirono macchine dattilografiche, ed ha per capisaldi: le leve sospese in cerchio, battenti dal basso in alto in un unico e centrale punto d'impressione, movimento del carrello portacarta ad ogni battuta di tasto. Il Ravizza ideò anche una specie di carta carbone e di nastro, il rullo portacarta, previde il sistema di scrittura a dieci dita e nel 1886 fabbricò persino una macchina a scrittura visibile. Dei 16 apparecchi da lui costruiti, due esistono tuttora presso la famiglia.

Sorvolando sui posteriori inventori americani e inglesi, troviamo nel 1861 la macchina del brasiliano P. João de Azevedo; nel 1864-66 quelle del tirolese Pietro Mitterhofer; nel 1865 l'emisfera scrivente del norvegese Malling Hansen; nell'anno stesso la macchina di G. House di Buffalo e finalmente nel 1867 quella inventata da C. L. Sholes, C. Glidden e S. W. Soulé da Milwaukee (Sholes costruì non meno di 30 diversi modelli sperimentali).

Divenuta quest'ultima nel 1874 la notissima Remington, entriamo nel periodo di fabbricazione industriale, che comprende oltre 250 tipi. Predominano dapprima le macchine a leve sospese in cerchio, battenti dal basso in alto (Remington, Caligraph, Smith-Premier, Yost, ecc.) a scrittura cieca; mentre introducendo il rullo portacaratteri (Crandall, 1879; Hammond; Blickensderfer, ecc.), mettendo le leve in posizioni diverse, che battano dal davanti all'indietro (Cash; Bar-Lock; Franklin, ecc.), o viceversa (North), facendole scivolare innanzi (Wellington-Empire-Adler, 1891), si ottennero delle scritture abbastanza visibili. Un primo tentativo di macchina a scrittura perfettamente visibile, con le leve battenti dal basso in alto, fu la Prouty (1886) seguita nel 1890 dalla Daugherty, ma fu soltanto il 1898 che segnò una rivoluzione nella costruzione, con la comparsa dell'Underwood, seguita da quasi tutte le fabbriche esistenti e naturalmente dalle nuove. Due macchine a scrittura visibile erano la Williams (1887) e l'Oliver (1894) con originalissime disposizioni di leve. Intorno all'anno 1885 fu un pullulare di macchine a un tasto solo, con cui si sarebbe voluto sostituire le grandi e costose e di cui esiste ancora un solo esemplare, la Mignon tedesca. La prima macchina fabbricata in Germania, paese che diede oltre cento modelli, fu la Frister & Rossmann, una perfetta imitazione della Caliwaph. La prima macchina italiana fu l'Olivetti (1909-11) cui seguirono l'Hesperia, la Victoria e l'Invicta. Prima di ricorrere al motorino elettrico, di cui varie macchine furono dotate, il pastore Faber di Berlino tentò con l'Elettrografo (1900) di darci una macchina perfettamente elettrica; i suoi tentativi, però, come quelli dell'italiano Vincenti di Londra e dell'americano Cahill, naufragarono. Anche la pneumatica avrebbe dovuto servire di propulsore ai tasti-segni: ne fanno fede i tentativi del Weir di Londra (1892), dell'ingegnere belga Soblik, ecc. Il tabulatore decimale fu introdotto prima del 1900 dal Gorin, una prima macchina per scrivere su registri fu l'americana Elliot & Hatsch (1888). Le prime macchine scrivevano soltanto l'alfabeto maiuscolo, poi fu introdotto il tasto di ricambio. Alcune macchine ebbero la tastiera doppia, cioè un tasto per ogni segno (Caligraph, Yost, ecc.), altre una tastiera disposta a ventaglio. Si sono anche ideate macchine per stenografare e macchine per la telescrittura.

Le macchine dattilografiche hanno ormai forma e dimensioni molto simili fra loro; constano di una serie di tasti che, abbassati dal dito del dattilografo, per mezzo d'un sistema di leve provocano lo spostamento di corrispondenti caratteri tipografici; questi vengono a battere su un foglio di carta e vi imprimono un segno, sia perché preventivamente inchiostrati, sia perché urtano la carta attraverso un nastro colorato. Ad ogni impressione corrisponde uno spostamento trasversale del foglio di carta e degli organi che lo trattengono.

Si dice sistema cinematico l'insieme di leve e di rimandi che va dalla tastiera alla leva portacaratteri o martelletto.

Il cinematico più diffuso è quello realizzato fin dal 1890 dal Wagner e adottato tra l'altre dalla casa Underwood. Nelle più recenti, si adottano cinematici più complicati, ma che realizzano condizioni di simmetria di funzionamento per tutti i tasti, riducono al minimo gli attriti trasversali sui perni, realizzano una curva dell'accelerazione del moto della leva porta-caratteri tale da consentire la massima velocità al lavoro dattilografico, determinano la possibilità di trasportare il segmento porta-martelletti, per imprimere le maiuscole, anziché l'intero carrello.

Il foglio di carta destinato a ricevere la scrittura è generalmente avvolto su un rullo di gomma, portato a sua volta da un carrello munito di guide di scorrimento, che si sposta in senso trasversale da destra verso sinistra sotto l'azione di una molla: un dente d'ingaggio impedisce normalmente tale movimento, ma con l'abbassamento di uno dei tasti o della sbarra spaziatrice si determina l'allontanamento del dente d'ingaggio e lo scatto del carrello, per uno spazio corrispondente all'intervallo fra lettera e lettera, dopodiché il dente d'ingaggio riportandosi nella posizione iniziale blocca di nuovo il carrello; l'insieme di questi organi si dice scappamento. Nell'incastellatura della macchina un meccanismo fa scorrere il nastro inchiostrato e ne permette il continuo e automatico svolgersi e riavvolgersi sulle bobine portanastro, un altro meccanismo solleva il nastro ad ogni impressione, portandolo nella posizione di lavoro, cosicché lo scritto non è occultato dal nastro; un dispositivo permette poi di scrivere usufruendo della parte più alta o di quella più bassa del nastro, che spesso sono inchiostrate con colori diversi. Ciascun tasto porta due segni, in genere il maiuscolo ed il minuscolo della stessa lettera; il trasportatore, spostando verticalmente il segmento portacaratteri o il carrello, permette l'impressione dell'uno o dell'altro segno.

Le tastiere, usate nei differenti paesi europei, variano di poco tra loro e sono state imposte dai costruttori americani fin dal secolo scorso. In generale non si adattano bene alle caratteristiche delle diverse lingue, ma i tentativi di razionalizzazione della disposizione delle lettere non hanno finora ottenuto buon esito. L'incolonnatore permette, a mezzo di un tasto, lo spostamento automatico del carrello e l'arresto a punti prefissati. Il tabulatore decimale, introdotto nel 1898, permette l'incolonnamento automatico delle cifre a seconda del loro ordine di grandezza.

Mentre la macchina da ufficio costituisce ancora oggi il più importante prodotto dell'industria, si sono, in questi ultimi anni, andati diffondendo altri tipi di macchine aventi caratteristiche differenti.

La macchina portatile o da viaggio, in origine macchina economica con tastiera ridotta, è venuta perfezionandosi, assumendo tutte le caratteristiche d'una macchina normale, mantenendo però il minor volume e il minor peso; essa tende a diffondersi soprattutto per l'uso personale e privato perché le sue caratteristiche non permettono di ottenere quel rendimento di velocità, durata, perfezione di scrittura che è richiesto dal lavoro continuo degli uffici.

La macchina silenziosa presentata fin dal 1912 dalla Compagnia Noiseless e perfezionato dalla Remington nel 1925, elimina in modo notevolissimo il rumore nel funzionamento. Ciò è ottenuto mediante differenti artifici, il principale dei quali consiste nell'impedire l'urto del martelletto contro il rullo porta-carta, utilizzando un movimento di pressione del carattere sul nastro, senza che il rullo porta-carta venga percosso. Il problema non si può ancora considerare risolto perfettamente perché le caratteristiche generali delle macchine silenziose, relativamente a velocità, nitidezza di scrittura, durata, numero di copie ottenibili, ecc., sono necessariamente inferiori a quelle dei tipi normali di macchina per scrivere.

Le macchine per fattura permettono, mediante differenti dispositivi, la scrittura continua sopra fogli multipli di stampati, realizzando un'economia di tempo. Altra applicazione, abbastanza recente, della macchina dattilografica è il suo adattamento alla contabilità.

Le macchine dattilografiche contabili possono essere un semplice adattamento delle macchine normali oppure vere combinazioni di macchine dattilografiche con macchine calcolatrici. Il tipo più semplice è realizzato nella macchina a doppia presa della carta che ha un dispositivo per l'introduzione di un secondo foglio mobile, mentre un foglio principale rimane fisso sulla macchina. Tale dispositivo permette di risolvere bene parecchi problemi di contabilità, soprattutto la contabilità a ricalco che consente un notevole risparmio di tempo e una maggiore sicurezza perché le diverse scritturazioni anziché essere riportate dal giornale ai diversi conti, vengono impresse contemporaneamente.

Le macchine contabili propriamente dette sono costituite da una comune macchina dattilografica la quale porta un certo numero di blocchetti totalizzatori, in quantità corrispondente alle colonne dei conti, i quali totalizzano gli elementi verticali di detti conti. Un totalizzatore orizzontale (cross) invece totalizza gli elementi orizzontali delle colonne. Alcune di queste macchine hanno i movimenti parzialmente o totalmente azionati con motore elettrico. In generale tali macchine non scrivono direttamente i risultati; questi vengono letti sopra i totalizzatori e quindi trascritti. Inoltre per la tenuta della contabilità esiste da parecchi anni una macchina (Elliot Fischer) che scrive direttamente sul foglio mantenuto in piano ed è quindi particolarmente adatta per la tenuta dei libri o registri a fogli fissi. Macchine contabili apposite per la contabilità sono la Burroughs Moon-Hopkins e la National (Ellis), la prima delle quali è l'unica che comprende anche un meccanismo di moltiplicazione, ma non permette la completa visibilità della scrittura.

Per le macchine dattilografiche elettriche lo sforzo necessario al funzionamento dei vari meccanismi è compiuto da un motorino elettrico.

Le macchine dattilografiche automatiche (Hooven) permettono la riproduzione di un elevato numero di esemplari scritti a macchina, riproducenti fedelmente una determinata lettera. Tali macchine funzionano per mezzo di matrici di cartone perforato, alla stessa guisa degli autopiani.

Esistono non meno di 41 fabbriche di macchine dattilografiche, di cui 17 in Germania, 9 negli Stati Uniti, 4 in Inghilterra, 3 in Italia, 3 in Francia, 2 in Spagna, 1 in Svizzera, 1 in Danimarca, i in Giappone. Alcune fabbricano macchine normali e macchine portatili ed altre esclusivamente macchine portatili. Non esistono dati ufficiali sulla produzione dei diversi paesi perché - data la produzione sempre leggermente superiore al consumo - la concorrenza è molto forte e i dati di produzione sono molto riservati. Si calcola però che gli Stati Uniti producano annualmente 588.000 macchine dattilografiche standard (di cui la metà prodotte da una sola casa) e circa 380.000 macchine dattilografiche portatili. Circa il 50% della produzione americana è destinato all'esportazione, costituendo una delle industrie americane maggiormente esportatrici. La produzione tedesca è più difficile a precisare ma si ritiene di almeno 110.000 macchine dattilografiche standard annue, di cui 80.000 destinate all'esportazione. La produzione delle macchine dattilografiche portatili è, in proporzione, assai inferiore a quella americana. La produzione italiana è di circa 20.000 macchine dattilografiche di cui il 75% di una sola fabbrica. La produzione inglese si calcola di circa 18.000 macchine dattilografiche standard, delle quali i due terzi prodotti da una sola fabbrica. La produzione francese è di circa 6000 macchine dattilografiche standard annue. La produzione degli altri stati è sconosciuta e di scarsissima importanza.

Il nome usato popolarmente, "macchina da scrivere", apparentemente errato, è in realtà un uso corretto della preposizione "da" con il significato di fine o scopo. Altri esempi evidenti di quest'uso alquanto comune in italiano sono ferro da stiro, moto da corsa, abito da sera, servizio da tè, sala da ballo, mobili da ufficio, carta da regalo, gomma da cancellare, ecc.

Quest'uso è anche ben attestato in letteratura, ad esempio nel Alessandro Manzoni ne I promessi sposi:

« ad ogni contadino fece dare un giulio, e una falce da mietere. »
Qui chiaramente si intende che lo scopo della falce è quello di mietere, e non di essere mietuta. Infatti, il significato di questa preposizione usato in questa costruzione era in aperto contrasto con il significato secondo cui "da" davanti all'infinito di un verbo indica qualcosa che deve essere fatta (da vedere, da vivere, da non perdere, ...), e quindi la disambiguazione era lasciata al contesto:

falce da mietere - grano da mietere
in questo caso la preposizione aveva un significato opposto a seconda del contesto

occhiali da vedere
in quest'altro caso senza alcun contesto specificato, gli occhiali potevano servire per vedere (scopo), oppure erano occhiali che dovevano essere visti (azione da essere fatta).

Nell'italiano contemporaneo, il significato di scopo della costruzione "da + verbo all'infinito" è ancora vivo in espressioni come appunto macchina da scrivere o macchina da cucire, e ancora in forme come la congiunzione in modo da.





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domenica 24 maggio 2015

IL MIGLIO

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Il miglio è un cereale molto antico originario dell’Asia Centro Orientale, coltivato anche dagli antichi egizi.

Alimento importante per i popoli africani ed asiatici, in Europea è utilizzato soprattutto come alimento per pollame ed uccelli da gabbia, con il passar del tempo è stato soppiantato dal grano e dal riso.

Il miglio si è diffuso dai luoghi di origine a partire dall'epoca preistorica, verosimilmente in concomitanza delle grandi migrazioni. I reperti archeologici risalenti all'età della pietra lo collocano in diverse zone dell'Asia e dell'Europa (anche in Italia), ma solo con l'epoca Romana e ancor più nel Medioevo arrivò a costituire una fonte di sostentamento primaria per la popolazione.
Come molti altri cereali, anche il miglio fu scalzato dalle coltivazioni di frumento (più redditizio e predisposto alla panificazione). Nel "Bel Paese", fin dal XIV secolo d.C., col miglio si preparava una sorta di minestra densa (polenta); ciò avveniva molto prima dell'importazione del mais (100 anni più tardi) e dell'invenzione della relativa polenta veneto-friulana (altri 100 anni più tardi).
Oggi il miglio è considerato un cereale povero e, come detto sopra, la sua coltivazione è parecchio inferiore a quella del frumento; nel vecchio e nei nuovi continenti viene coltivato (in modeste quantità) soprattutto come fonte alimentare per certe piccole specie aviarie.
Anche nel settore dell'allevamento destinato all'alimentazione umana (carne, latte e uova), il miglio risulta meno produttivo di altri cereali, comunque molto economici (ad es. mais e sorgo). Solo nelle zone più aride del globo, il miglio supporta ancora direttamente (ma in maniera parziale) l'alimentazione degli esseri umani.

Il miglio è una pianta erbacea annuale appartenente alla famiglia delle Poacee (o Graminacee). Rientra nel raggruppamento dei cereali minori. Nelle regioni dell'Italia meridionale, il miglio viene solitamente indicato con il pittoresco vocabolo vernacolare di "Vulpicoca" (Vulp'coc). La radice etimologica del nome dialettale si deve alle caratteristiche inflorescenze paragonabili per forma alla coda della volpe.

La pianta ha un portamento cespitoso, con numerosi culmi lignificati alla base, robusti, di altezza variabile dai 50 cm ai 150 cm, talvolta ramificati in alto.

Le foglie sono lineari-lanceolate, guainanti, con lamina larga fino a 1 cm e pubescente su entrambe le pagine. La ligula è pelosa.

I fiori riuniti in infiorescenze a pannocchia terminali, lunghe 15-20 cm, spesso pendenti su un lato. Ogni pannocchia è composta da racemi di spighette. La spighetta, lunga circa 4 mm, è composta da due brevi glume di 1-2 mm e due fiori. Ciascun fiore è racchiuso da due glume superiori (lemma e palea), lunghe circa 3 mm, e comprende un androceo di tre stami e un gineceo con stimma bifido e piumoso.

Il frutto è una cariosside ellittica, lucida, di colore bianco oppure variabile dal grigio al bruno al nero. Il peso di 1000 cariossidi è di 5-7 grammi.

È una specie termofila e xerofila. Particolarmente esigente per quanto riguarda le temperature, nelle regioni temperate vegeta con ciclo primaverile-estivo. Ha una spiccata resistenza alla siccità e non mostra particolari esigenze pedologiche, perciò si presta per la coltivazione in aree aride o semidesertiche e su suoli poveri.

È ampiamente coltivato in aree semidesertiche dell'Asia e dell'Africa, nonostante abbia una diffusione nettamente inferiore a quella dei principali cereali di questi continenti (sorgo e riso). La coltivazione del miglio interessa l'Africa subsahariana, il Medio Oriente, l'Ucraina, la Russia, il Kazakistan e, soprattutto, l'India e la Cina.

Date le sue esigenze termiche, leggermente superiori a quelle del mais, il miglio si coltiva, nelle regioni temperate, a ciclo primaverile-estivo. La semina si effettua a partire dalla primavera avanzata (fine aprile). Dal momento che ha un ciclo produttivo piuttosto breve (2-3 mesi), questo cereale si presta per la semina in secondo raccolto in estate, dopo la raccolta di un cereale o di un erbaio autunno-primaverile.

La coltivazione si pratica secondo gli stessi criteri del sorgo, come coltura da granella o da foraggio, impiegando nel primo caso 5-15 kg di seme, nel secondo caso 30-40 kg. La semina può essere fatta con seminatrice a righe. Per la concimazione si può impiegare un concime fosfoazotato oppure un ternario con rapporto ottimale di 1:1,2:1 fra azoto fostoro e potassio. L'eventuale irrigazione può essere condotta con interventi di soccorso.

Come cereale da granella il miglio va raccolto prima della maturazione di morte in quanto la maturazione è scalare e la pannocchia sgrana facilmente. Va perciò mietuto precocemente e trebbiato dopo la completa essiccazione. Le rese sono dell'ordine di 1-2 tonnellate ad ettaro.

Come cereale foraggero va raccolto all'inizio della spigatura se utilizzato come foraggio verde, oppure alla maturazione cerosa se destinato all'insilamento. La produzione di massa verde è dell'ordine di 15-25 t/ha.

Nell'alimentazione umana occidentale odierna il miglio ha interesse marginale, venendo impiegato per produrre farine e semole utilizzate soprattutto dalla cucina macrobiotica.

Il valore dietetico è elevato, per il discreto tenore in proteine (11% in peso) (simile a quello del grano), sali minerali e fibra grezza.

È inoltre ricco di vitamine A e del gruppo B, specialmente niacina, B6 e acido folico, calcio, ferro, potassio, magnesio e zinco. Per il suo elevato contenuto di acido silicico, e non salicilico come erroneamente altrove riportato, è spesso considerato un vero e proprio prodotto di bellezza per pelle e capelli, unghie e smalto dei denti, stimolandone la crescita. Il miglio non contiene glutine, per cui la predisposizione alla panificazione è minore rispetto alle farine di orzo, frumento e segale. Quando viene combinato con il grano (o la gomma arabica nel caso di prodotti per celiaci), può essere utilizzato per produrre pane lievitato. Da solo, può venire utilizzato per "schiacce" non lievitate.

Poiché nessuno dei tipi di miglio è strettamente imparentato con il grano, è un alimento indicato per i celiaci o per chi soffre di altre forme di allergie o intolleranze al glutine o al grano. Il miglio è anche un blando inibitore della perossidasi tiroidea, l'enzima coinvolto nella sintesi degli ormoni tiroidei (un recente studio ha rilevato una stretta correlazione tra celiachia e autoimmune nei pazienti in età pediatrica) e quindi non dovrebbe venire consumato in grandi quantità da chi soffre di problemi alla tiroide.

Nella medicina tradizionale cinese viene considerato un alimento tiepido, meno riscaldante dell'avena. Il suo considerevole contenuto in lecitina e colina lo rende particolarmente adatto alle persone sedentarie, chi è dedito a lavori intellettuali e ai convalescenti, nonché alle donne in gravidanza.

Essendo ricco di lipidi, lo stoccaggio sotto forma di fiocchi o farina è limitato nel tempo, mentre si conserva a lungo in chicco. È quindi consigliabile macinare i chicchi al momento dell'uso.

Ricco inoltre di vitamine del gruppo A e B è un ottimo prodotto di bellezza per pelle, capelli e unghie che ne traggono grande giovamento, infatti, nelle popolazioni che ne fanno un largo uso, gli uomini e le donne hanno capelli lucenti ed unghie forti e resistenti.

Cosa importante da tenere presente è che il miglio, come anche altri cereali, non apporta tutti gli amminoacidi essenziali e va quindi sempre abbinato a legumi o a proteine di origine animale.

Ricco in colina e lecitina.
Indicato nell’infanzia, per le donne in gravidanza, utile nel prevenire gli aborti spontanei e per le persone che soffrono di acidità di stomaco poiché è l’unico cereale alcalinizzante e di facile digestione. Utile anche in tutti i soggetti con problematiche legate alla milza ed al pancreas.

Il miglio è un ottimo ricostituente ed energizzante naturale, utile in caso di stress, stanchezza, convalescenza, e astenici.
Il suo sapore dolce lo rende molto gradevole, è di facile preparazione, può essere consumato nella forma che più aggrada (fiocchi, chicchi, farina), non serve ammollo e basta prepararlo nel modo corretto.



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