lunedì 28 marzo 2016

SOSTANZE PER IL "TAGLIO"

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La cocaina è dappertutto. E come in ogni business, i produttori ricorrono a ogni mezzo per ottimizzare i profitti, tagliando la coca con una lunga serie di disgustosi additivi.I più sanno che spesso la cocaina viene diluita con cose come zuccheri e creatina, e che queste vengono mascherate con caffeina, lidocaina o benzocaina per simulare le proprietà anestetiche e stimolanti della cocaina. Ma in pochi sono consapevoli delle sostanze ancor più schifose che finiscono nella roba che vi sniffate.
La cocaina è sempre tagliata con altre sostanze. Le sostanze da taglio utilizzate possono essere suddivise in due tipi: quelle non psicoattive, che vengono utilizzate solo per aumentarne il peso (per esempio il lattosio, la cellulosa, ecc.) e quelle psicoattive, utilizzate perché rafforzano o imitano l’effetto della cocaina ma costano molto meno e quindi aumentano i margini di guadagno dei narcotrafficanti.

Nel 23,5% dei casi nella cocaina analizzata sono presenti da tre a cinque prodotti da taglio psicoattivi, nel 18,2% due prodotti da taglio, mentre nel 49,6% delle analisi viene riscontrato un unico prodotto da taglio presente (solitamente il levamisolo).

Il levamisolo è stato originariamente usato contro la filaria (antelmintico) ed è oggi usato in una vasta gamma di altre applicazioni mediche. Gli effetti collaterali più frequenti sono vomito e diarrea, ma può anche provocare reazioni allergiche (come difficoltà respiratorie, irritazioni cutanee), disturbi del sistema nervoso (svenimento fino alla perdita di conoscenza) o problemi nella formazione del sangue. A livello psichico, sono stati riscontrati blackout, forte affaticamento e difficoltà d’espressione verbale. Un consumo regolare indebolisce il sistema immunitario provocando una maggiore vulnerabilità alle malattie e alle infezioni.

I chimici forensi segnalano che i ritrovamenti di cocaina tagliata con il levamisolo sono sempre più frequenti, a livello globale e a tutti gli stadi della distribuzione da quella che circola in strada ai carichi di migliaia di tonnellate. Il che significa che l'adulterante viene aggiunto in America Meridionale prima che la sostanza venga esportata. Solitamente la quantità di levamisolo rintracciabile nella cocaina non è elevata, quindi non serve tanto ad aggiungere peso, e non è neanche uno stimolante o un anestetico. È però noto che uno dei metaboliti del levamisolo è un composto chiamato aminorex, dotato di proprietà stimolanti simili all'anfetamina.

Un'altra possibilità potrebbe riguardare il fatto che il levamisolo aumenta la quantità di dopamina rilasciata, alzando il livello di acido glutammico nel cervello. Dato che l'effetto euforico della cocaina proviene principalmente dal blocco della proteina trasportatrice di dopamina che a sua volta accresce la quantità disponibile di dopamina che interagisce con i recettori di dopamina nel cervello il levamisolo potrebbe potenzialmente incrementare gli effetti della cocaina attraverso il rilascio di dopamina. Alcuni suggeriscono addirittura che il levamisolo potrebbe garantire il superamento dei test sulla purezza della cocaina.

Nel 2005, il levamisolo è stato rinvenuto in quasi il due percento di cocaina sequestrata dall'agenzia antidroga statunitense, la DEA. Nel 2007 la frequenza è salita al 15 percento, fino ad arrivare a livelli sconcertanti del 2011, quando la DEA ha calcolato che il 73 percento di tutta la cocaina sequestrata era stata tagliata con il levamisolo. In Europala tendenza è identica. Nel 2008-2009 nella cocaina danese la frequenza era circa del 66 percento, e nel 2011-2012 è aumentata fino al 90 percento. Gli effetti collaterali del levamisolo non sono necessariamente preoccupanti per il consumatore medio, dal momento che l'esposizione non si verifica quotidianamente. È piuttosto il consumatore regolare che dovrebbe tenere in considerazione la cosa.



La fenacetina è un derivato dell’amminofenolo usato come antidolorifico e per abbassare la febbre. A causa dei suoi effetti cancerogeni e dei danni ai reni se combinato con altri analgesici, questo medicamento non è più in commercio dal 1986. La fenacetina può anche avere effetti stimolanti e provocare euforia, per questo è usata per il taglio della cocaina.

Gli anestetici locali sono usati per il taglio della cocaina per il loro effetti inebrianti e anestetici (test sulla lingua, gengive). Nei campioni di cocaina analizzati sono state rilevate lidocaina, benzocaina, procaina e tetracaina. Possono manifestarsi effetti collaterali a livello del sistema nervoso centrale (per esempio, irrequietezza, convulsioni, coma) nonché reazioni allergiche, aritmie cardiache e ipertensione. La cocaina tagliata con gli anestetici locali è particolarmente problematica se iniettata per via intravenosa, perché può causare una paralisi del sistema nervoso centrale, rallentare o bloccare la circolazione sanguigna tra atri e ventricoli nel cuore. Forme gravi di questa patologia, anche nota come AV-block, possono causare un rallentamento del battito cardiaco (bradicardia, bradiaritmia). In casi estremi, può insorgere un arresto completo delle camere che, in caso di mancata somministrazione di farmaci e senza un massaggio cardiaco, possono portare alla morte.

La caffeina sveglia, accelera il battito cardiaco e aumenta temporaneamente l’efficienza. In dosi elevate, da 300 mg (circa 8 tazze di caffè), produce euforia. La caffeina sottrae fluidi al corpo (disidratazione). A dosi elevate, possono manifestarsi diversi effetti collaterali quali: sudorazione, palpitazioni cardiache, urgenza urinaria, disturbi del ritmo cardiaco, disturbi della percezione, tremori, nervosismo e disturbi del sonno. L’uso regolare e prolungato comporta il rischio di sviluppare una dipendenza con sintomi fisici.

L’idrossizina è un antistaminico utilizzato anche per il trattamento di ansia, disturbi del sonno e varie malattie della pelle. La combinazione con l’alcol ne aumenta gli effetti ma anche gli effetti collaterali. In caso di aritmie cardiache, malattie del sangue, malattie della prostata, malattie epatiche gravi, disfunzioni renali così come i pazienti trattati con MAO inibitori (Aurorix), dovrebbero rinunciare al consumo d’idrossizina. Gli effetti collaterali del consumo d’idrossizina possono essere nausea, affaticamento, febbre, vertigini, mal di testa, insonnia, movimenti involontari, disorientamento, allucinazioni, aumento della sudorazione, abbassamento della pressione sanguigna e battito cardiaco accelerato.

Il diltiazem appartiene al gruppo degli antagonisti del calcio ed è usato per trattare la pressione alta o altre malattie cardiovascolari che provocano, per esempio, il restringimento delle arterie coronarie e che comportano un insufficiente apporto di ossigeno al muscolo cardiaco (“indurimento delle arterie”, malattie coronariche, angina perctoris). Il diltiazem riduce il bisogno di ossigeno del muscolo cardiaco influenzando i processi metabolici che consumano energia e riducendo le resistenze periferiche (riduzione della tensione muscolare cardiaca). Questa influenza sulla muscolatura ha effetto antipertensivo evidente. L’assunzione di diltiazem provoca effetti collaterali quali perdita di appetito, vertigini, mal di testa, sensazione di debolezza, rallentamento del battito cardiaco, disturbi del ritmo cardiaco. Si possono inoltre verificare reazioni allergiche come arrossamento, prurito o eruzioni cutanee, nausea, gonfiore dei tessuti o sonnolenza. In caso di un’insufficienza cardiaca, di rallentamento del battito cardiaco, di bassa pressione sanguigna, il consumo di ditliazem è sconsigliato. Il diltiazem è probabilmente aggiunto alla cocaina per ridurre l’aumento della pressione sanguigna indotto dalla cocaina. In ragione delle sue proprietà ipotensive, in caso di consumo eccessivo (quantità), il ditliazem riduce gli effetti collaterali facendo però aumentare i rischi di sovradosaggio.

Se si parla di catena di produzione, tutto comincia dal livello base (o livello uno) con il coltivatore, che normalmente è responsabile dell'estrazione iniziale delle foglie di coca usando un impasto di cemento e benzina per far impastare la cocaina grezza. L'impasto viene trasportato più facilmente rispetto alle grosse quantità di foglie, ma ha una durata inferiore; a questo punto il coltivatore vende la miscela al secondo livello. Il tipo in questione è un grossista indipendente o l'impiegato di un laboratorio (livello tre). L'impasto di cocaina viene purificato al livello due o tre per aumentare la stabilità della sostanza. Un metodo comune consiste nell'ossidare le impurità dell'impasto con il permanganato di potassio, un ossidante molto forte con un color viola acceso.

Nel tentativo di ostacolare questa parte della produzione, la DEA ha iniziato nel 2000 la Operation Purple, il cui obiettivo era quello di monitorare la distribuzione e le rotte globali del permanganato di potassio per prevenire la produzione di cocaina. L'operazione è stata un completo fallimento. Inevitabilmente, l'industria multimiliardaria della cocaina ha trovato un modo per rimpiazzare il permanganato di potassio e la cocaina circola in abbondanza.

Al terzo livello, alla base della cocaina viene aggiunto l'acido cloridrico per convertirla al corrispondente sale, dal quale si ricavano quelli che conosciamo come cristalli di cocaina di alta qualità. Da qui in poi, gli esportatori e gli importatori costituiscono il "livello quattro". 

Quel che è certo è che, con un business così redditizio, ogni livello della catena aggiunge una certa quantità di adulteranti per massimizzare il profitto. Solitamente un simile processo diventa difficile da controllare quando la cocaina arriva al paese di destinazione e viene divisa in porzioni più piccole. Tutti vogliono aggiudicarsi una fetta della torta, non importa se si tratta dei membri di una gang responsabili delle prime fasi della distribuzione o quanti distribuiscono la sostanza agli spacciatori.

La friabilità è solitamente un segno di purezza, ma non una garanzia, visto che dipende dal metodo di cristallizzazione usato durante la produzione e richiede che la sostanza non sia stata frantumata. Quando si presenta in blocchi, invece, non porta sicuramente buone notizie. Gli spacciatori non esiteranno ad usare lacca per i capelli per solidificare la cocaina in polvere dopo averla adulterata.




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domenica 27 marzo 2016

IL BICARBONATO

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L'idrogenocarbonato di sodio o carbonato acido di sodio o carbonato monosodico (o bicarbonato di sodio che è il nome più comune, ma che è stato deprecato dalla IUPAC, commercialmente noto semplicemente come bicarbonato) è un sale di sodio dell'acido carbonico. A differenza del carbonato, l'idrogenocarbonato mantiene uno ione idrogeno dell'acido corrispondente.

È tra gli additivi alimentari codificati dall'Unione europea, identificato dalla sigla E 500.

L’origine del nome risale al XVIII secolo, nell’epoca di Lavoisier, quando i sali venivano classificati come la combinazione di un ossido metallico con un ossido non metallico. Nel caso del carbonato di sodio per spiegare la presenza degli ossidi e dell’idrogeno unito a molecole d’acqua, veniva scritto così Na2O · 2CO2 · H2O e quindi il suo nome era bicarbonato di soda, che venne poi sostituito con “di sodio”.

Si tratta di un sale bianco, molto fino, inodore, non infiammabile e solubile in piccole quantità e come sappiamo si presta a tanti usi. Si produce secondo il metodo Solvay per cui si uniscono: acqua, ammoniaca, cloruro di sodio (sale da cucina) e anidride carbonica, ottenendo così il bicarbonato di sodio (NaHCO3) e cloruro di ammonio. Questa però non è la miscela adatta all’uso alimentare, quella che lo è è costituita da acqua, carbonato di sodio e anidride carbonica. Si trova anche in natura, disciolto nell’acqua o sotto forma di concrezione, allo stato naturale s’identifica come nahcolite (NaHCO3) o come componente secondario del natron (Na2CO3·10(H2O).

Quando il bicarbonato entra a contatto con l’acido cloridrico sviluppa anidride carbonica allo stato gassoso che dilata lo stomaco ed al tempo stesso stimola il rilascio di gastrina che aumenta a sua volta gli enzimi digestivi e la produzione di acido cloridrico. Il risultato è una sensazione di gonfiore, meteorismo seguito in teoria dal sollievo della digestione, attenzione però se si è mangiato molto dopo poco i sintomi peggiorano perché le pareti dello stomaco son già dilatate e l’aumento di produzione di acido peggiora i bruciori di stomaco. Quindi in realtà andrebbe assunto contro l’acidità a stomaco vuoto disciolto in un bel bicchierone d’acqua.

Nei preparati farmaceutici non crea problemi perché viene associato al dimeticone che riduce la produzione di anidride carbonica.

Fra le altre proprietà benefiche del bicarbonato di sodio ricordiamo che è uno sbiancante per i denti è che può esser unito al dentifricio per lavare i denti, in piccole quantità e non frequentemente per non abradere eccessivamente lo smalto dei denti.

Se si soffre di dermatite o di eccessiva sudorazione, una doccia o un bagno con il bicarbonato di sodio è un’ottima soluzione per ristabilire il pH della pelle. Volendo si può creare una miscela di acqua e bicarbonato da usare come deodorante, basta versarla in un contenitore di profumo vuoto con il tappo spray.

Una delle proprietà del bicarbonato di sodio su cui si sorvola è la bellezza che regala ai capelli, donando lucidità ed eliminando il calcare dell’acqua.

Fra i benefici dell’assunzione di bicarbonato di sodio pare che vi sia anche un alleviazione dei sintomi del raffreddore e dell’influenza, si possono fare dei suffumigi o semplicemente bere dell’acqua e bicarbonato a digiuno.



Bere la mattina, a digiuno un bicchiere di acqua tiepida con succo di limone ed un cucchiaino di bicarbonato di sodio aiuta ad alcalinizzare il pH del sangue, evitando così l’insorgere di patologie derivanti da un eccesso di acido urico, flogosi delle articolazioni e sviluppo di cellule tumorali che sembrano propense a svilupparsi in ambienti acidi.

Se consumato in quantità moderate, questo ingrediente può aiutare a ristabilire un equilibrio sano del nostro organismo. In alcuni casi, infatti, viene adoperato per alcalinizzare il corpo.

Le proprietà leggermente antisettiche del bicarbonato di sodio uccidono alcuni tipi di parassiti, funghi e muffe. Per questo, può essere adoperato, di tanto in tanto, per la pulizia del cavo orale, praticando dei gargarismi e in caso di tosse e mal di gola.

Negli ultimi anni, si sta diffondendo la teoria che un corpo con un Ph alcalino sia generalmente più sano, visto che molte malattie trovano terreno fertile in un ambiente acido. Potrebbe essere assunto per un breve periodo di tempo, accostato a una dieta alcalinizzante. In questo caso va consumato al mattino, a stomaco vuoto, sciogliendone un cucchiaino in un bicchiere d’acqua.

In caso di predisposizione alla formazione di calcoli renali di origine calcica, mista (ossalico-calcica) e soprattutto urica (accumulo di acido urico), oltre a eliminare gli alimenti ricchi di purine, può essere utile, di tanto in tanto, assumere del bicarbonato di sodio.

La gotta è uno stato infiammatorio delle articolazioni che avviene quando l’acido urico si accumula nelle urine, nel sangue e nei tessuti. Il bicarbonato contrasta l’accumulo di acido urico. Ecco perché potrebbe essere utile nei casi di gotta.
Il bicarbonato di sodio è ottimo anche per i pediluvi, per rilassare e deodorare ma anche per combattere le micosi, in quanto il bicarbonato di sodio ha proprietà antisettiche.

Avendo proprietà antinfiammatorie è indicato anche contro le gengiviti e le affezioni del cavo orale, basta usare l’acqua in cui è disciolto il bicarbonato come collutorio (è indicato anche per l’alitosi).

Anche nel caso dell’herpes labiale, il bicarbonato è un buon rimedio naturale per far durare meno l’infiammazione, basta unirlo a del succo di limone e fare degli impacchi.

Il bicarbonato di sodio si rivela utile anche contro la congiuntivite, anche in questo caso occorre fare degli impacchi con dischetti di ovatta imbevuti di acqua e bicarbonato.

In caso di cistite è consigliata l’assunzione di mezzo bicchiere d’acqua con dentro 1 cucchiaino di bicarbonato, massimo tre volte al dì, per riequilibrare l’acidità dell’urina.

Il bicarbonato, avendo proprietà decongestionanti, è anche un buon rimedio contro le emorroidi, basta fare dei lavaggi con acqua e bicarbonato.

Contro le noiose punture d’insetto il rimedio è semplice: bicarbonato miscelato a poca acqua, in modo che formi un’emulsione quindi si applica ed in breve tempo il fastidio sparisce.

Sembra incredibile ma è vero, con l’acqua e bicarbonato si rimuovono meglio perfino le schegge.

Un uso molto comune che si fa del bicarbonato, in materia di cosmesi, è lo scrub per il viso e corpo, dalla grana molto fine indicato per pelli sensibili.

Il bicarbonato di sodio ha un alto contenuto di sodio: non è sicuro in dosi elevate e non deve essere assunto per lunghi periodi di tempo.
Chi soffre di pressione alta non dovrebbe usare questo ingrediente, o quantomeno dovrebbe farlo sotto la supervisione di uno specialista.
Non va assunto durante gravidanza e allattamento.
Possibili effetti indesiderati dell’assunzione di bicarbonato diluito in acqua includono crampi allo stomaco e aumento della sete.



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giovedì 24 marzo 2016

LA GIRAFFA

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La giraffa fu una delle molte specie descritte per la prima volta da Carlo Linneo nel 1758. Egli diede a questa specie il nome di Cervus camelopardalis. Morten Thrane Brünnich istituì il genere Giraffa nel 1772. Agli inizi del XIX secolo, Jean-Baptiste Lamarck credette che il lungo collo della giraffa costituisse una «caratteristica acquisita», evolutasi attraverso generazioni di giraffe ancestrali che si sforzavano di raggiungere le foglie degli alberi più alti. Questa teoria venne in seguito accantonata, e gli studiosi oggi ritengono che il collo della giraffa sia il frutto della selezione naturale darwiniana - le giraffe ancestrali dotate di colli più lunghi erano meglio adattate al loro ambiente e furono così in grado di riprodursi e tramandare i loro geni.

I dati ricavati da uno studio del 2007 sulla genetica di sei sottospecie - le giraffe dell'Africa occidentale, di Rothschild, reticolate, masai, del Sudafrica e dell'Angola - suggeriscono che queste potrebbero essere specie a sé a tutti gli effetti. Sulla base del livello di deriva genetica riscontrato nei DNA nucleare e mitocondriale (mtDNA) gli studiosi hanno dedotto che le giraffe appartenenti a queste popolazioni sono isolate riproduttivamente e si incrociano raramente, malgrado non vi sia nessun ostacolo naturale a tenerle divise. Ciò è particolarmente vero per le popolazioni confinanti di giraffe di Rothschild, reticolate e masai. La giraffa masai potrebbe a sua volta essere costituita da più specie separate tra loro dalla Rift Valley.

Le giraffe reticolate e masai presentano una maggiore diversità nel DNA mitocondriale, il che sta a dimostrare che le giraffe siano comparse per la prima volta nell'Africa orientale. Le popolazioni situate più a nord sono più strettamente imparentate con le prime, mentre quelle situate a sud lo sono con le seconde. Sembra che le giraffe scelgano partner con un disegno del mantello simile, che si imprime loro nella memoria da piccole. Le implicazioni di queste scoperte per la conservazione delle giraffe sono state riassunte da David Brown, autore principale dello studio, che affermò così su BBC News: «Riunire tutte le giraffe in un'unica specie nasconde il fatto che alcune razze siano sull'orlo dell'estinzione. Alcune di queste popolazioni contano appena poche centinaia di esemplari e necessitano di immediata protezione».

La giraffa dell'Africa occidentale è più imparentata da vicino con le giraffe di Rothschild e con quelle reticolate che con la giraffa del Kordofan. I suoi antenati potrebbero essere migrati dall'Africa orientale a quella settentrionale e successivamente aver raggiunto il suo areale attuale in seguito all'espansione del deserto del Sahara. Al culmine della sua estensione, il lago Ciad potrebbe aver agito da barriera tra le giraffe dell'Africa settentrionale e quelle del Kordofan durante l'Olocene.

L'origine del nome «giraffa» viene fatta risalire alla parola araba zarafah, forse a sua volta derivata da una lingua africana. Il nome viene tradotto come «colei che cammina velocemente».

Il nome specifico camelopardalis è di origine latina. Durante il Medioevo la specie era conosciuta come «camelopardo», nome derivato dalle parole greche antiche che indicavano il cammello e il leopardo, animali a cui la giraffa ritenevano somigliasse.

La giraffa appartiene al sottordine Ruminantia. Molte specie di Ruminantia risalenti all'Eocene medio sono state scoperte in Asia centrale, Sud-est asiatico e Nordamerica. Le condizioni ecologiche durante questo periodo potrebbero aver facilitato la loro rapida dispersione. La giraffa è una delle due sole specie viventi della famiglia dei Giraffidi; l'altra è l'okapi. La famiglia un tempo era molto più numerosa: ne sono stati descritti più di 10 generi fossili. Loro parenti conosciuti più stretti erano gli estinti Climacoceratidi. Questi, assieme alla famiglia degli Antilocapridi (la cui unica specie attuale è l'antilocapra), appartenevano alla superfamiglia Giraffoidea. Questi animali forse si evolvettero a partire dagli estinti Paleomericidi, possibili antenati anche dei cervi.

Mentre alcuni antichi Giraffidi, quali il Sivatherium, avevano corpi massicci, altri avevano una forma molto più slanciata. Il più antico antenato conosciuto della linea evolutiva della giraffa è il Canthumeryx, i cui resti, rinvenuti in Libia, sono stati fatti risalire a 25-20, 17-15 o 18-14,3 milioni di anni fa a seconda delle diverse opinioni degli studiosi. Questo animale era una creatura di medie dimensioni, esile e simile a un'antilope. Il Giraffokeryx comparve 15 milioni di anni fa nel subcontinente indiano e ricordava sia un'okapi che una piccola giraffa, ma aveva un collo più allungato e i caratteristici ossiconi simili a corna fatti di cartilagine. Il Palaeotragus, che apparve per la prima volta 14 milioni di anni fa e visse in un'area compresa tra l'Africa orientale e la Mongolia, ricordava l'okapi e potrebbe essere il suo diretto antenato. Aveva un cranio più allungato e schiacciato ed esibiva un dimorfismo sessuale molto marcato. Il Samotherium rimpiazzò il Paleotragus 10-9 milioni di anni fa. Questi animali avevano dimensioni maggiori ed avevano una testa perfino più allungata con seni cranici ben sviluppati e un profilo più simile a quello della giraffa. Vissero sia in Africa che in Eurasia. Il Bohlinia, che comparve per la prima volta nell'Europa sud-orientale e visse 9-7 milioni di anni fa, discendeva probabilmente dal Samotherium ed è a sua volta un probabile antenato diretto della giraffa. Il Bohlinia ricordava moltissimo le giraffe moderne: aveva collo e zampe lunghi e ossiconi e dentatura simili.

Il Bohlinia raggiunse la Cina e l'India settentrionale in risposta ai cambiamenti climatici. In quest'area si evolvette il genere Giraffa che, circa 7 milioni di anni fa, raggiunse l'Africa. Ulteriori cambiamenti climatici provocarono l'estinzione delle giraffe asiatiche, mentre quelle africane sopravvissero e si diversificarono in alcune nuove specie. G. camelopardalis fece la sua comparsa circa 1 milione di anni fa in Africa orientale durante il Pleistocene. Alcuni biologi ipotizzano che l'attuale giraffa discenda dalla G. jumae; altri considerano la G. gracilis un candidato più probabile. Si ritiene che la principale spinta evolutiva che ha portato alla comparsa delle giraffe sia stato il cambiamento climatico, iniziato 8 milioni di anni fa, che trasformò un'area ricoperta da vaste foreste in una regione più aperta. Alcuni ricercatori hanno ipotizzato che questo nuovo habitat, assieme a una nuova dieta, comprendente anche foglie di Acacia, possa aver esposto gli antenati della giraffa a tossine che causarono tassi di mutazione più elevati e un più alto tasso di evoluzione.

La giraffa è un grande mammifero artiodattilo africano appartenente alla famiglia dei Giraffidi, che annovera solo un’altra specie vivente, l’okapi (Okapia johnstoni). È inconfondibile per la forma e le dimensioni. Ha un collo eccezionalmente lungo sorretto da un corpo relativamente corto e zampe molto lunghe. È il più alto tra tutti gli animali terrestri viventi superando abbondantemente i 5 metri di altezza e la tonnellata di peso. Se ne riconoscono fino a 9 sottospecie che differiscono per la forma, dimensione e colore delle macchie che compongono il caratteristico mantello pezzato. Ogni individuo è caratterizzato dal proprio unico disegno distinguibile dagli altri. I maschi sono generalmente più alti e pesanti delle femmine raggiungendo eccezionalmente i 6 metri di altezza e i 1.600 kg di peso. Il collo, che può superare i 2 metri, è composto come in tutti i mammiferi da 7 vertebre cervicali estremamente allungate. Sul capo sono presenti due piccole corna ricoperte di pelo (ossiconi) e una protuberanza ossea mediana più evidente nei maschi. La lingua è assai lunga (50 cm), prensile e coriacea e consente alla giraffa di cibarsi delle foglie di acacia noncurante delle spine sui rami della pianta. Per raggiungere il suolo con la testa (ad esempio per bere) la giraffa è costretta a divaricare gli arti anteriori, mentre può riposarsi inginocchiandosi su tutti e quattro gli arti. Ha solamente due andature, il passo o il galoppo. Non forma mandrie e non mostre spiccata socialità. Diffusa in quasi tutta l’Africa subsahariana, abita le savane alberate e le boscaglie dove si ciba preferenzialmente di foglie di acacia o di altri alberi. I maschi durante il periodo riproduttivo si fronteggiano di fianco colpendosi con il collo (necking). Ogni femmina partorisce un singolo piccolo che alla nascita è altro circa 1,8 metri con il collo in proporzione più corto rispetto all’adulto per facilitare il parto. Le giraffe hanno un’aspettativa di vita di circa 25 anni, molto elevata se rapportata agli altri ruminanti. Da adulti non hanno predatori naturali anche se occasionalmente possono essere vittime di leoni. I giovani sono più vulnerabili e sono predati da leoni, leopardi, licaoni e iene macchiate.



Le giraffe ospitano vari parassiti. Le zecche sono molto frequenti, specialmente nell'area attorno ai genitali, dove la pelle è più sottile che altrove. Tra le specie più comuni che rivolgono attenzione alle giraffe figurano quelle dei generi Hyalomma, Amblyomma e Rhipicephalus. Le giraffe possono affidarsi all'opera delle bufaghe beccorosso e beccogiallo per ripulirsi dalle zecche e per essere avvisate in caso di pericolo. Le giraffe ospitano numerose specie di parassiti interni e sono soggette a varie malattie. Erano in particolar modo vittime della peste bovina, malattia virale attualmente eradicata.

Gli esseri umani interagiscono con le giraffe da millenni. I san dell'Africa meridionale eseguono particolari danze curative che prendono il nome da alcuni animali; la danza della giraffa viene eseguita per trattare le malattie della testa. I motivi per spiegare l'altezza della giraffa sono stati l'oggetto di vari racconti popolari africani, tra cui uno proveniente dall'Africa orientale secondo il quale la giraffa sarebbe divenuta così alta per aver mangiato troppe erbe magiche. Le giraffe sono state raffigurate nell'arte di quasi tutti i popoli africani, quali i kiffiani, gli egizi e i nubiani di Meroe. Ai kiffiani si deve l'incisione di due giraffe a grandezza naturale che sono stati definite i «petroglifi di arte rupestre più grandi del mondo». Gli egizi attribuirono alla giraffa un proprio geroglifico, chiamato «sr» in egizio antico e «mmy» durante i periodi successivi. Gli egizi allevavano le giraffe come animali da compagnia e le trasportavano via nave in altre zone del Mediterraneo.
La giraffa era conosciuta anche presso i greci e i romani, che, considerandola un mostruoso ibrido tra un cammello e un leopardo, la chiamavano camelopardalis. La giraffa fu una delle molte specie animali collezionate e messe in mostra dai romani. La prima giunta a Roma venne portata là da Giulio Cesare nel 46 a.C. ed esibita al pubblico. Con la caduta dell'Impero romano d'Occidente, il trasporto di giraffe in Europa cessò. Durante il Medioevo, le giraffe divennero note agli europei attraverso il contatto con gli arabi, che veneravano la giraffa per il suo aspetto particolare.

Nel 1414, una giraffa venne trasportata via nave da Malindi al Bengala. Da qui venne portata in Cina dall'esploratore Zheng He e collocata in uno zoo della dinastia Ming. L'animale divenne una fonte di attrazione per i cinesi, che lo associavano al mitico Qilin. La giraffa dei Medici era una giraffa presentata a Lorenzo de' Medici nel 1486. Il suo arrivo a Firenze provocò una grande eccitazione. Un'altra famosa giraffa venne portata dall'Egitto a Parigi ai primi del XIX secolo come dono di Mohamed Alì di Egitto a Carlo X di Francia. Divenuta una celebrità, la giraffa fu il soggetto di numerosi memorabilia o «giraffanalia».

Le giraffe continuano a essere presenti nella cultura moderna. Salvador Dalí le raffigurò con la criniera in fiamme in alcuni dei suoi dipinti surrealisti. Dalí considerava la giraffa un simbolo di mascolinità, e una giraffa in fiamme sarebbe dovuta apparire come un «mostro apocalittico cosmico mascolino». Vari racconti per bambini hanno come protagonista una giraffa, come La giraffa che aveva paura dell'altezza di David A. Ufer, Le giraffe non sanno danzare di Giles Andreae e Io, la giraffa e il pellicano di Roald Dahl. Le giraffe sono apparse in vari film animati, sia come semplici comparse nei film Disney Il re leone e Dumbo - L'elefante volante, che in ruoli più importanti nei film Uno zoo in fuga e Madagascar. Sophie la Giraffa è un popolare massaggiagengive per bambini fin dal 1961. Un'altra famosa giraffa immaginaria è la mascotte della catena di giocattoli Toys "R" Us, Geoffrey la Giraffa.

La giraffa è stata oggetto di vari esperimenti e scoperte scientifiche. Gli scienziati esaminarono attentamente le proprietà della pelle della giraffa quando dovettero creare tute per gli astronauti e i piloti di caccia, che corrono il rischio di svenire se il sangue scende troppo velocemente lungo gli arti inferiori. Alcuni informatici hanno modellato i disegni del mantello di alcune sottospecie tramite meccanismi di reazione-diffusione.

La costellazione della Giraffa, introdotta nel XVII secolo, raffigura quest'animale. Gli tswana del Botswana interpretano la costellazione della Croce del Sud come due giraffe - Acrux e Mimosa formano il maschio, e Gacrux e Delta Crucis formano la femmina.

Le giraffe sono state probabilmente un comune bersaglio per i cacciatori di ogni parte dell'Africa. Parti diverse del loro corpo venivano utilizzate per scopi differenti. La carne veniva mangiata. Con i peli della coda venivano fabbricati scacciamosche, braccialetti, collane e fili. Dalla pelle venivano ricavati scudi, sandali e tamburi, mentre i tendini erano utili come corde per gli strumenti musicali. Il fumo esalato da una pelle di giraffa bruciata veniva utilizzato dagli sciamani del Buganda per trattare le epistassi. Gli humr del Sudan assumono una particolare bevanda, detta Umm Nyolokh, fatta con il fegato e il midollo osseo della giraffa. L'Umm Nyolokh spesso contiene DMT e altre sostanze psicoattive provenienti dalle piante consumate dalla giraffa, quali l'acacia; la sua assunzione può provocare allucinazioni nelle quali gli humr sostengono di vedere i fantasmi delle giraffe uccise. Nel XIX secolo, gli esploratori europei iniziarono a cacciare la giraffa per puro divertimento. Anche la distruzione dell'habitat ha avuto un effetto deleterio sulla specie: nel Sahel, la richiesta di legna da ardere e di aree da pascolo per il bestiame ha portato a una intensa deforestazione. Normalmente, le giraffe possono convivere pacificamente con il bestiame domestico, dal momento che non competono direttamente con esso.

La giraffa è classificata come specie a rischio minimo dalla IUCN, in quanto è ancora numerosa. Tuttavia, la specie è scomparsa da molte zone del suo areale storico, quali l'Eritrea, la Guinea, la Mauritania e il Senegal. Probabilmente è scomparsa anche in Angola, Mali e Nigeria, ma è stata introdotta con successo in Ruanda e Swaziland. Due sottospecie, la giraffa dell'Africa occidentale e la giraffa di Rothschild, sono considerate in pericolo di estinzione, in quanto allo stato selvatico ne rimangono appena poche centinaia. Nel 1997, Jonathan Kingdon ipotizzava che la giraffa della Nubia fosse la più minacciata tra tutte le giraffe; nel 2010, il suo numero era valutato al di sotto delle 250 unità, ma questa stima è solo approssimativa. Le riserve di caccia private hanno contribuito alla conservazione delle popolazioni di giraffa nell'Africa meridionale. Il Giraffe Manor è un popolare hotel di Nairobi che costituisce un vero e proprio santuario per la giraffa di Rothschild. La giraffa è protetta in quasi tutto il suo areale. È l'animale nazionale della Tanzania ed è protetta dalla legge. Le uccisioni non autorizzate possono essere punite con il carcere. Nel 1999, si stimava che vi fossero in natura più di 140.000 giraffe, ma le stime del 2010 indicano che ne rimangono meno di 80.000.



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mercoledì 23 marzo 2016

IL PELTRO

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Il peltro è una lega composta principalmente di stagno (min. 90%), con l'aggiunta di altri metalli (rame, bismuto e antimonio). Anticamente, secondo la qualità e l'uso previsto, poteva contenere fino al 15% di piombo. Oggi il piombo è stato bandito per la tossicità. È impiegato per creare oggetti artistici, monili, trofei, vassoi, piatti, e altro ancora. Il peltro è un materiale antico che si produceva colando una lega di stagno in forme di ferro o di ottone incise, e lavorandola successivamente con la tecnica della corrosione e della martellatura per ottenerne le forme della tradizione artigiana. Oggi viene lavorato a caldo in stampi di ghisa, terra o gomma siliconica e poi rifinito a mano artigianalmente, oppure stampato in lastre e lavorato al tornio, ma sempre utilizzando tecniche prettamente artigiane. Talvolta questo materiale viene ancora utilizzato per la fabbricazione delle canne d'organo.

Lo stagno, principale componente della lega di peltro, è utilizzato in Europa da almeno quattro millenni. In Europa veniva spesso utilizzato unito al rame per la produzione del bronzo ed era utilizzato in preferenza come metallo di lega. Lo stagno ha ottenuto il favore di molte popolazioni fin da tempi antichi grazie alle sue caratteristiche tecniche: la resistenza agli agenti chimici ed atmosferici, il punto di fusione relativamente basso (232 °C), la facilità a formare leghe, la duttilità e il colore brillante.

Con il Medioevo si ha il vero punto di svolta nella storia del peltro grazie alla nascita delle Corporazioni delle arti e dei mestieri. In molte città della Germania e in altri Paesi europei nascono comunità artigiane di fonditori di stagno e nel 1285 si ha la prima menzione ufficiale dei fonditori di Norimberga. In questo periodo l'arte del fonditore guadagna stima e considerazione. In Italia, Le storie del peltro e di Venezia si fusero nel 12° secolo, lo testimoniano statuti e ordinamenti che disciplinano i rapporti tra i singoli produttori raccogliendoli nella corporazione dei peltrai, sicuramente una delle più importanti in Europa.

Lo stagno, che del peltro è la componente principale, si estrae da un minerale detto "cassiterite" che si trova, mescolato con altri minerali, in giacimenti sotterranei oppure in miniere a cielo aperto in sabbie metallifere. Se l'estrazione della cassiterite non presentava particolari difficoltà, la separazione del metallo dai diversi minerali ad esso mescolati era assai faticosa. Mulini a pestelli azionati ad acqua frantumavano il minerale che veniva poi lavato al fine di separare i minerali con diverso peso specifico. Una successiva separazione, effettuata in un forno ad alta temperatura, precedeva un'ulteriore frantumazione in un mulino a pestelli.
Il metallo veniva finalmente avviato verso il forno fusorio a legna nel quale otteneva una definitiva purificazione. Il metallo ottenuto da questi laboriosi procedimenti, lo stagno (simbolo chimico Sn-Stannum), è di colore grigio argenteo leggermente dorato e si ossida formando, a seconda degli elementi con i quali viene a contatto, ossido stannoso - di colore bruno verdastro - e ossido stannico - di colore giallo bruno -. Il punto di fusione dello stagno avviene tra il 231' e il 238', il più basso tra quelli dei metalli comuni. Lo stagno è un metallo molto malleabile ma, a causa della sua struttura cristallina, manca di resistenza; basta l'azione di una forza di circa 8 Kg per mm' per provocarne la rottura che viene accompagnata da un suono caratteristico detto "grido dello stagno". Essendo inoltre buon conduttore, consente la facile trasmissione del caldo e del freddo; ciò spiega la realizzazione sia di scaldavivande che di stampi o forme per sorbetti. Lo stagno è difficilmente lavorabile allo stato puro in quanto non fonde in modo omogeneo e presenta delle cristallizzazioni sulla superficie. Per questa ragione lo stagno è da sempre stato legato ad altri metalli quali il rame, l'antimonio, il piombo ed il bismuto.
Avendo ogni fonditore conservato gelosamente il segreto della composizione delle leghe usate, risulta oggi praticamente impossibile indicare formule attendibili riguardanti la composizione delle leghe dei peltri antichi. Si può tuttavia indicativamente stabilire una distinzione tra tre diverse qualità di peltro:
-Il peltro "fino", con un'alta percentuale di stagno (superiore al 907o) unita a percentuali variabili di antimonio, rame, bismuto e piombo. Questa lega, la migliore, è di colore chiaro, brillante e con suono squillante.
-Il peltro "comune", con un contenuto di piombo variabile dal 10 al 20%, fu la lega usata in passato e può essere ancora considerata di buona qualità anche se leggermente più tenera e meno sonora della precedente.
-Il peltro "corposo o pieno" con una percentuale di piombo variabile dal 30 al 40% genera oggetti che si presentano di colore grigio scuro, non hanno riflessi ed emettono un suono sordo e cupo. L'abuso da parte di alcuni peltrai della quantità di piombo aggiunta alla lega rendendola così nociva alla salute, indusse Inghilterra, Francia, Germania e Italia ad emanare norme che fissavano nel 10% la quantità massima di piombo consentita. I vantaggi economici derivanti da un abbondante uso del piombo sono facilmente intuibili: il piombo costava molto meno dello stagno, abbassava il punto di fusione della lega con conseguente sensibile risparmio "energetico", facilitava la fusione e rendeva più semplice la finitura degli oggetti. Dall'entrata in vigore di queste normative, alcune leghe di più facile fusione e lavorazione, si diffusero in tutta Europa e diventarono patrimonio di molte botteghe artigiane.



E' interessante a questo punto sapere come gli organi di controllo potessero determinare la percentuale di piombo presente in una lega fusa in un crogiolo senza aver a disposizione un moderno studio di analisi. Il metodo usato, senz'altro piuttosto empirico, consentiva comunque di determinare con una sorprendente precisione la percentuale di piombo contenuta nella lega basandosi sulla differenza di peso specifico esistente tra lo stagno (7,285) ed il piombo (11,36). 1 funzionari addetti al controllo delle leghe disponevano di undici campioni di identico volume. Il primo campione era composto in parti uguali da stagno e piombo e seguito da altri dieci campioni con percentuali di piombo via via decrescenti fino a giungere all'ultimo campione composto interamente da stagno puro. Giunti nella bottega di un peltraio i controllori prelevavano direttamente dal crogiolio un corrispondente volume di lega e confrontavano, su una bilancia a due piatti, il peso dei campioni con quello della lega prelevata. Quanto più il peso della lega corrispondeva a quello di uno dei campioni, tanto meglio si poteva conoscere la percentuale di piombo contenuta nella lega usata dal peltraio controllato.

Ai nostri giorni lo stagno, troppo tenero per essere lavorato da solo, viene temperato per lo più con piccole quantità di rame e antimonio dando così origine al peltro che oggi troviamo in commercio.

La massa dello stagno con le sue doti di malleabilità e di agevole fusione, per acquistare forza deve legarsi a quantità modeste di altri metalli. Ora il rigore delle normative ha limitato o vietato l'utilizzo di alcuni metalli nelle leghe impiegate nella realizzazione di stoviglie o vasellame vario.

La lega di peltro è formata inserendo i lingotti di metallo nel crogiolo alla temperatura di circa 300 °C. Il metallo fuso viene raccolto dal crogiolo con un mestolo e versato nello stampo in movimento, montato su di una macchina centrifuga. La forza centrifuga aiuta il metallo liquido ad occupare tutti gli spazi dello stampo. Una volta solidificatosi, l'oggetto viene manualmente estratto dallo stampo e successivamente ripulito da eventuali sbavature di fusione con un processo di smerigliatura. Se un oggetto, come spesso accade, è composto da più pezzi, è necessario che ogni singolo pezzo venga assemblato tramite la saldatura.

Infine, l'oggetto viene inserito nelle macchine dedicate alla burattatura che levigano la superficie rendendola più liscia e meno opaca. Il pezzo viene poi controllato e raddrizzato dalle eventuali ammaccature utilizzando appositi martelletti.

Chi si trovasse a visitare il laboratorio di un Maestro peltraio dei nostri giorni, rimarrebbe probabilmente sorpreso nel vedere quanto poco differiscono nella sostanza le odierne tecniche di lavorazione da quelle del passato sopra descritte. Certo nuove tecnologie sono venute in aiuto del peltraio d'oggi che può contare su attrezzature più resistenti e veloci specialmente nel campo della fusione e della finitura, ma la manualità del montaggio dei pezzi è praticamente rimasta invariata così come invariati sono rimasti tutti gli accorgimenti ed i segreti per ottenere una buona fusione. E' qui il caso di accennare brevemente al problema delle leghe oggi usate; una normativa della Comunità Economica Europea vieta in modo tassativo l'uso del piombo e limita nel contempo i quantitativi di antimonio, rame e bismuto in modo da poter garantire per l'uso della tavola tutti gli oggetti attualmente prodotti nell'ambito della Comunità Europea. La normativa sopra citata - EN 611/1 - prevede anche la possibile presenza di una percentuale d'argento non superiore al 4%. Questa precisazione ci offre lo spunto per affrontare un argomento oggetto di dibattito tra gli esperti e riguardante la presenza o meno di argento in alcuni peltri antichi. I più sostengono, e questo è anche il mio parere, che le leghe di peltro graffi più ostinati, potrete strofinare il pezzo non abbiamo mai, di norma, contenuto argento. Le ragioni per le quali si ritiene quanto meno improbabile l'ipotesi della presenza dell'argento nel peltro sono principalmente due: la prima deriva dal fatto che l'aggiunta d'argento in percentuali di un certo rilievo (sopra il 10%) rende più difficoltosa la fusione facendo anche diventare il metallo più difficile da lavorare; la seconda è legata al fatto che, essendo impossibile dimostrare tangibilmente quale percentuale d'argento fosse presente nella lega, è facile intuire le difficoltà che un peltraio avrebbe incontrato per spuntare un prezzo più alto dovuto al maggior costo della materia prima. Con ciò non possiamo comunque escludere che qualche peltraio abbia aggiunto alla sua lega piccoli quantitativi d'argento.

Il peltro, a differenza di altri materiali, non si ossida e tende a rimanere inalterato nel tempo senza bisogno di particolare cura. È tuttavia possibile prendere alcuni accorgimenti per mantenerlo in perfetto stato. È sconsigliato l'uso di lavastoviglie e anche l'avvicinamento diretto a fonti di calore, visto il basso punto di fusione del materiale che lo compone. In caso di macchie è quindi possibile lavare il peltro con acqua e un normale detersivo per piatti.




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martedì 22 marzo 2016

JIAD

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Sui social media diversi account riconducibili a jihadisti esultano dopo le esplosioni all'aeroporto di Bruxelles e alla stazione della metro di Maelbeek che hanno seminato il terrore nella capitale belga. "Incursione a Bruxelles: è magnifico", twitta Karim Abdul Salam sul suo account "Ksalam". Un altro: "I leoni di Bruxelles vi dicono: o lasciate libero Salah o questo è il negoziato dello Stato Islamico". Ma il mondo islamico si spacca. "Il terrorismo colpisce tutti" ha detto il Gran Mufti dell'Egitto Sheik Shawki Allem, in un discorso al Parlamento europeo.

Jihad è un termine nel linguaggio dell'Islam che connota un ampio spettro di significati. Letteralmente significa "sforzo", individua lo slancio per raggiungere un dato obiettivo e può fare riferimento allo sforzo spirituale del singolo individuo per migliorare sé stesso. Nella dottrina islamica indica tanto lo sforzo di miglioramento del credente (il «jihad superiore»), soprattutto intellettuale, rivolto per esempio allo studio e alla comprensione dei testi sacri o del diritto, quanto la guerra condotta «per la causa di Dio», ossia per l'espansione dell'islam al di fuori dei confini del mondo musulmano (il «jihad inferiore»).

Nel mondo occidentale la traduzione di jihad esclusivamente come "guerra santa" è fuorviante perché ci porta a equivocare il vero significato del termine. Prevalentemente, però, il termine jihad è stato interpretato come la guerra santa contro gli infedeli, lo strumento armato per la diffusione dell'Islam.

L'interpretazione militante del jihad dello Shaykh al-Azzam descrive il "jihad offensivo" come una campagna che può essere dichiarata solo da un'autorità musulmana legittima e legale, tradizionalmente il califfo. Secondo questa interpretazione, nessuna autorità è richiesta per intraprendere il "jihad difensivo", poiché, secondo questa opinione, quando i musulmani vengono attaccati, diventa automaticamente obbligatorio per tutti i maschi musulmani in età militare, entro un certo raggio dall'attacco, prendere le difese.

La questione di quale autorità musulmana, ammesso che ve ne sia, possa adempiere doveri come dichiara il jihad è divenuta problematica da quando, il 3 marzo 1924, Kemal Atatürk abolì il califfato, che i sultani ottomani detenevano dal 1517. Non esiste oggi un'unica autorità politica costituita che governi la maggioranza del mondo musulmano. A causa della mancanza di organizzazione ecclesiastica all'interno della vasta maggioranza dei musulmani, qualsiasi aderente può autoproclamarsi alim (esperto in materia di religione) e proclamare un jihad offensivo per mezzo di una fatwa. Il riconoscimento è a discrezione di colui che riceve il messaggio.

In assenza di un Califfo, i soli leader politici islamici di fatto sembrerebbero essere i governi dei moderni stati-nazione musulmani emersi dagli sconvolgimenti della prima parte del XX secolo. Comunque, a causa dell'alleanza e della sudditanza degli Stati-nazione secolari e pseudo-democratici o monarchici del Vicino e Medio Oriente alle superpotenze economiche e militari mondiali non islamiche, Stati Uniti, Europa e Russia, i militanti islamisti reputano che gli Stati-nazione moderni emersi a metà XX secolo siano non-islamici e non rappresentativi di società islamiche. Il secolarismo è ampiamente percepito dagli islamisti militanti come rappresentativo di interessi politici americani ed europei ostili all'Islam.

Di conseguenza, movimenti islamisti (come al-Qaida e Hamas) si sono assunti il compito di proclamare il jihad, scavalcando l'autorità tanto degli Stati-nazione quanto degli esperti religiosi tradizionali. Analogamente, alcuni musulmani (specialmente i takfiristi) hanno dichiarato il jihad contro specifici governi che percepiscono come corrotti, oppressivi e anti-islamici.

Durante il periodo della rivelazione coranica, allorché Maometto si trovava a La Mecca, lo jihad si riferiva essenzialmente alla lotta non violenta e personale, quindi a quello sforzo interiore necessario per la comprensione dei misteri divini. In seguito al trasferimento (Egira) da La Mecca a Medina nel 622 e alla fondazione di uno Stato islamico, il Corano (22:39) autorizzò il combattimento difensivo. Il Corano iniziò a incorporare la parola qital (combattimento o stato di guerra) per scopo difensivo:

« Combattete contro coloro che vi combattono, ma senza eccessi, ché Allah non ama coloro che eccedono. »
(Corano 2:190 (tradotto da Shakir))
« Se vi assalgono uccideteli, se però cessano allora Allah è perdonatore. »
(Corano 2:191-192 (tradotto da Shakir))
« Combatteteli finché non ci sia più persecuzione. »
(Corano 2:193 (tradotto da Shakir))
« Quando poi siano trascorsi i mesi sacri, uccidete questi idolatri ovunque li incontriate, catturateli, assediateli e tendete loro agguati. Se poi si pentono, eseguono l'orazione e pagano la decima, lasciateli andare per la loro strada. Allah è perdonatore, misericordioso. »
(Corano 9:5 (tradotto da Shakir))
« Combattete coloro che non credono in Allah e nell'Ultimo Giorno, che non vietano quello che Allah e il Suo Messaggero hanno vietato, e quelli, tra la gente della Scrittura, che non scelgono la religione della verità, finché non versino umilmente il tributo, e siano soggiogati. »
(Corano 9:29 (tradotto da Shakir))
Tra i seguaci dei movimenti liberali interni all'Islam, l'interpretazione di questi versi è quello di una specifica "guerra in corso" e non una serie di precetti vincolanti per il fedele.

Questi musulmani "liberali" tendono a promuovere una comprensione dello jihad che rigetti l'identificazione dello jihad con la lotta armata, scegliendo invece di porre in risalto principi di non violenza. Tali musulmani citano la figura coranica di Abele a sostegno della credenza per cui chi muore in conseguenza del rifiuto di usare violenza può ottenere perdono dei peccati.

Nonostante le interpretazioni posteriori di queste porzioni del Corano, i passaggi in questione sottolineavano chiaramente, all'epoca, l'importanza dell'autodifesa nella comunità musulmana.

I musulmani spesso si rifanno a due significati di jihad citando un hadith riportato dall'imam Bayhaqi e da al-Khatib al-Baghdadi, benché il suo isnad (la catena di tradizioni che può ricondurre sino alle parole di Maometto) sia classificato come "debole":

"grande jihad (interiore)" – lo sforzo per autoemendarsi, contrastando le pulsioni passionali dell'io;
"piccolo jihad (esteriore)" – uno sforzo militare, cioè una guerra legale; da esercitarsi solo in caso di attacco personale.
Altri esempi di azioni che potrebbero essere considerati jihad (sulla base di hadith con migliore isnad) includono:
parlare francamente contro un governante oppressivo ("Sunan" di Abu Dawud, libro 37, numero 4330);
andare in pellegrinaggio a Mecca – per le donne, questa è la migliore forma di jihad ("Sahih" di Bukhari, volume 2, libro 26, numero 595);
prendersi cura dei genitori anziani, come il profeta Maometto ordinò di fare a un giovane, invece di unirsi a una campagna militare (narrato da Bukhari, Muslim, Abu Dawud al-Sijistani, al-Tirmidhi e al-Nasa'i).
Il significato più letterale di jihad è semplicemente "sforzo" e così è talvolta soprannominato lo "jihad interiore". Lo "jihad interiore" si riferisce essenzialmente a tutti gli sforzi che un musulmano potrebbe affrontare aderendo alla religione.

La tradizione di identificare lo sforzo interiore come grande jihad (cioè, non militare) pare essere stato profondamente influenzato dal sufismo, un movimento mistico interno all'Islam antico e diversificato.

Sia per i musulmani, sia per i non musulmani gli attacchi dei militanti sotto l'egida dello jihad possono essere percepiti come atti di terrorismo. Due gruppi islamisti si chiamano "jihad islamico": l'Egyptian Islamic Jihad e il Palestinian Islamic Jihad. I fiancheggiatori di questi gruppi percepiscono una giustificazione religiosa forte per un'interpretazione militante del termine jihad quale risposta adeguata all'occupazione israeliana della Cisgiordania (o "West Bank", all'inglese) e della Striscia di Gaza.



I musulmani credono che un posto in Paradiso (Ganna) sia assicurato a colui che muore come parte in lotta contro l'oppressione in qualità di shahid (martire, cioè testimone). Descrizioni del Paradiso, nell'Islam come nel Cristianesimo, sono intrinsecamente problematiche. Considerazioni negli hadith e nel Corano circa le ricompense spettanti allo shahid — i settantadue "puri spiriti" conosciuti come Huri, i fiumi che scorrono, l'abbondanza di freschi frutti — possono, a seconda delle prospettive, essere considerati realtà letterali o metafore per un'esperienza trascendente l'umana espressione.

Anche qualora la morte di un martire in un'operazione militare sia sicura, gli islamisti militanti considerano l'atto un martirio anziché un suicidio. Qualora musulmani non combattenti periscano in tali operazioni militari, i militanti considerano queste persone shahid, anch'essi con un posto assicurato in paradiso. Stando a questa concezione, solo il nemico kafir, o i miscredenti, ricevono danno dalle operazioni di martirio. La maggioranza degli eruditi islamici rigetta questa interpretazione. Il suicidio è un peccato nell'Islam. La dottrina maggioritaria degli studiosi discorda dall'approccio militante islamista in materia, e ritiene che le operazioni di martirio siano equivalenti al peccato di suicidio, che uccidere civili sia un peccato e che la Sunna (il costume, la "Retta Via") non permetta né l'uno né l'altro. Per questi studiosi, e per la vasta maggioranza dei musulmani, né le missioni suicide né gli attacchi ai civili sono considerati legittime conseguenze dello jihad.

Praticamente tutti i musulmani, tuttavia, ritengono che la legittima difesa dell'Islam comporti ricompense nell'Altra Vita.
Le organizzazioni militanti islamiste non costituiscono uno Stato autonomo o un'autorità di fatto; nondimeno esse considerano i bersagli economici come obiettivi militari, citando come prova le numerose incursioni carovaniere. Resta il fatto, comunque, che la tradizione islamica più antica proibisce espressamente di attaccare donne, bambini, anziani ed edifici civili nel corso di una campagna militare. Il Corano, l'indiscutibile fonte di autorità nell'Islam, vieta l'uccisione di innocenti. Tuttavia, il divieto di uccidere non è assoluto, poiché viene posta una condizione:

« Chiunque uccida una persona – a meno che essa non stia per uccidere una persona o per creare disordine sulla Terra – sarà come se uccidesse l'intera umanità; e chiunque salvi una vita, sarà come se avrà salvato la vita di tutta l'umanità. »
(Corano (5:32))
In base a questo verso del Corano, se un essere umano non ha ucciso un'altra persona o creato conflitto o disordine nel mondo è da considerarsi innocente. Ucciderlo sarebbe l'equivalente di un massacro dell'intera razza umana, un delitto inconcepibilmente barbaro e un peccato enorme. Per una parte dei musulmani questo verso è decisamente abbastanza chiaro da togliere ogni dubbio o ambiguità sul rango morale degli attacchi contro civili.

La maggioranza dei musulmani considera la lotta armata contro l'occupazione straniera o l'oppressione da parte di un governo interno degne di jihad difensivo. In effetti, sembra che il Corano richieda la difesa militare della comunità islamica assediata.

In epoca coloniale le popolazioni musulmane insorsero contro le autorità coloniali sotto la bandiera dello jihad (gli esempi includono il Daghestan, la Cecenia, la rivolta indiana contro la Gran Bretagna (moti indiani del 1857, altrimenti chiamati dai britannici mutiny, cui peraltro parteciparono in maggioranza gli Hindu) e la guerra d'indipendenza algerina contro la Francia). In questo senso, lo jihad difensivo non è diverso dal diritto di resistenza armata contro l'occupazione, che è riconosciuto dall'ONU e dal diritto internazionale.

La tradizione islamica ritiene che quando i musulmani vengono attaccati diventi obbligatorio per tutti i musulmani difendersi dall'attacco, partecipare allo jihad. Quando l'Unione Sovietica invase l'Afghanistan nel 1979, l'eminente militante islamico Abd Allah Yusuf al-Azzam (che influenzò in modo determinante Ayman al-Zawahiri e Usama bin Laden) emise una fatwa chiamata, Difesa delle terre islamiche, il primo dovere secondo la Legge, dichiarando che tanto la lotta afghana quanto quella palestinese erano jihad nelle quali l'azione militare contro i kuffar (miscredenti) sarebbe stata far? ?ayn (obbligo personale) per tutti i musulmani. L'editto fu appoggiato dal Gran Mufti dell'Arabia Saudita, Abd al-Aziz Bin Bazz.

Lo Jihad offensivo è l'intraprendere una guerra di aggressione e conquista contro i non-musulmani al fine di sottomettere questi e i loro territori al dominio islamico. Secondo numerose interpretazioni tra cui la Encylopedia of the Orient, "il jihad offensivo, cioè l'aggressione, è pienamente ammesso dall'islam sunnita", ma al contrario del jihad difensivo non vi è alcun obbligo di partecipazione da parte dei singoli fedeli musulmani, ma solo della comunità islamica nel suo insieme.

Il Corano usa il termine "jihad" solo quattro volte, nessuna delle quali fa riferimento alla lotta armata. Come tale, l'uso della parola jihad in riferimento alla guerra canonica islamica, fu un'invenzione posteriore dei musulmani. Tuttavia, il concetto di guerra legale islamica non fu a sua volta un'invenzione posteriore, e il Corano contiene passaggi che si riferiscono a specifici eventi storici e che possono chiarire la teoria e la pratica dalla lotta armata (qital) per i musulmani.

In questo senso è decisivo il passo 193 della Sura II, nel quale compare la parola "fitna" (arabo "prova"), che in arabo ha un significato molto ampio, che include sia la ribellione che il vizio, nei confronti di Allah e delle sue creature.

Come era pratica comune nel Medioevo, l'Islam in effetti considera i prigionieri di guerra un bottino. Quando Maometto e i suoi eserciti risultavano vittoriosi in battaglia, i prigionieri di guerra maschi o venivano restituiti alle tribù dietro riscatto, o scambiati con prigionieri di guerra musulmani, oppure venduti come schiavi, com'era costume dell'epoca. Anche le donne e i bambini catturati e fatti prigionieri correvano il rischio di cadere in schiavitù, benché la conversione all'Islam fosse una strada per ottenere la libertà.

Il trattamento di prigionieri di guerra ai tempi di Maometto in persona sembra fosse decisamente più umano di quello riservato dalle generazioni successive della dirigenza islamica. Dopo la battaglia di Badr, ai restanti furono date le seguenti opzioni: o di convertirsi all'Islam e guadagnare così la libertà, o di pagare il riscatto e guadagnare la libertà, o di insegnare a leggere e a scrivere a 10 musulmani e guadagnare così la libertà. Anche l'orientalista William Muir, non propriamente amichevole verso l'Islam, ha scritto quanto segue:

« A seguito delle decisioni di Maometto, i cittadini di Medina e coloro tra i rifugiati che possedevano case ricevettero i prigionieri e li trattarono con molta considerazione. "Siano benedetti gli uomini di Medina", disse uno dei prigionieri in epoca successiva, "ci hanno fatto cavalcare mentre essi camminavano, ci hanno dato pane lievitato quando ce n'era poco, mentre loro si accontentavano di datteri". »
(William Muir)

Con il termine jihadismo si fa tradizionalmente riferimento al macrofenomeno del fondamentalismo islamico che, attraverso una multiforme costellazione di soggetti e raggruppamenti, promuove il ‘jihad’ contro coloro che a vario titolo sono considerati infedeli. Tale prospettiva – che ha avuto modo di consolidarsi con particolare forza dopo gli attentati alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 – riconduce pertanto il jihad ad una dimensione conflittuale spesso marcatamente brutale e violenta, che funge da base ideologica per il terrorismo di matrice islamica e che, grazie anche ad una propaganda particolarmente efficace, ha attratto nell’ultimo decennio migliaia di nuovi adepti.

Nonostante la sua rilevanza, al di fuori del mondo islamico il tema del jihad è rimasto a lungo appannaggio esclusivo degli studiosi. La familiarità dell’opinione pubblica occidentale – per lo meno sotto il profilo mediatico - con il jihad e con il fenomeno del jihadismo è infatti da considerarsi recente, e in gran parte riconducibile agli sviluppi storici e geopolitici successivi agli eventi dell’11 settembre 2001, quando l’Occidente colpito nei suoi massimi simboli economici (New York e le Torri Gemelle) e militari (il Pentagono a Washington) ha scoperto al suo interno una inattesa quanto preoccupante vulnerabilità. Dai richiami al jihad contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979, gli Stati Uniti trassero indiscutibili vantaggi nell’ambito del conflitto bipolare; ma furono proprio quei proclami formulati da studiosi quali Abdullah Yusuf Azzam – lo stesso che nell’aprile del 1988 scrisse dello sviluppo di un’avanguardia come solida base (al-Qaida al-Subah) per costruire la società islamica anticipando la nascita di al-Qaida – a colpire gli USA nel 2001. Gli attentati al World Trade Center nel 1993, l’uccisione di decine di turisti occidentali a Luxor nel 1997 e gli attacchi alle ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania nel 1998 avevano già messo in evidenza la sensibilità degli obiettivi riconducibili all’Occidente, e risale al 1998 la celebre fatwa in cui Osama bin Laden affermava che l’uccisione degli americani e dei loro alleati fosse un dovere per ogni musulmano. Furono tuttavia i fatti eclatanti dell’11 settembre a condurre alla percezione del terrorismo di matrice jihadista come fenomeno globale, e di rimando ad una pressoché immediata sovrapposizione concettuale di jihad e terrorismo nelle società occidentali. Similmente, la ‘guerra al terrore’ avviata dall’amministrazione di George W. Bush con l’offensiva contro il regime talebano afghano reo di proteggere Osama bin Laden, è stata accompagnata da una retorica polarizzante che, nella misura in cui tendeva a separare in modo netto il bene dal male, ha contribuito ad alimentare la percezione del conflitto come una dichiarazione di guerra contro i musulmani, percezione meno nitida nel caso afghano ma cresciuta esponenzialmente con la campagna irachena iniziata nel 2003. Sotto il profilo sociologico, una interessante tesi tende ad evidenziare come l’identificazione dell’Occidente quale nemico dell’Islam possa essere ricondotta ad un netto rifiuto della sua cultura e del ‘carico di modernità’ che la accompagna, portatore di una secolarizzazione incompatibile con le sacre verità della legge islamica; al tempo stesso, la globalizzazione è intesa come strumento di un nuovo imperialismo occidentale che mira ad esercitare il suo controllo sul dar-al-Islam.

È altresì evidente però che i precipitati della globalizzazione sono stati funzionali alla diffusione della propaganda jihadista: grazie ad un efficace uso delle nuove tecnologie e dei media, il messaggio è stato infatti trasmesso su scala globale favorendo la crescita del sostegno alla causa; inoltre, la divulgazione delle immagini delle torture commesse dagli uomini della coalizione USA ad Abu Ghraib nel corso della guerra in Iraq, ha alimentato in alcuni ambienti l’idea dell’Occidente oppressore e rafforzato l’ostilità nei suoi confronti.

Inquadrare la galassia delle forze di ispirazione jihadista esclusivamente nella prospettiva di una lotta globale contro l’Occidente sotto una struttura di comando centralizzata indicata come al-Qaida, non renderebbe tuttavia conto della complessità del fenomeno, ulteriormente accentuatasi negli ultimi anni. Proprio in riferimento ad al-Qaida, si è tradizionalmente utilizzato il concetto di network, ad indicare una struttura ramificata che non si esauriva esclusivamente nelle aree dell’Afghanistan e del Pakistan. Sui collegamenti tra ‘centro’ e ‘periferia’, sulla forza dei vincoli di affiliazione delle diverse cellule e sull’eventuale autonomia di azione di tali unità rispetto al ‘centro’ si è spesso discusso, senza peraltro giungere a risposte univoche. Il nucleo originario di al-Qaida ha subito nel corso della guerra al terrore perdite di una certa rilevanza, su tutte quella di Osama bin Laden ucciso nel corso del blitz di Abbottabad (Pakistan) nel maggio del 2011; cionondimeno le diverse ramificazioni di quello che viene identificato come il network qaidista hanno comunque dimostrato di essere operative. È il caso di al-Qaida nella Penisola Araba (AQAP), gruppo costituitosi ufficialmente nel gennaio del 2009 e responsabile di numerosi attacchi nello Yemen senza dimenticare il grande nemico americano, come dimostra il fallito attentato del 25 dicembre 2009 sul volo 253 della Northwest Airlines da Amsterdam a Detroit; o ancora di al-Qaida nel Maghreb Islamico (AQIM), le cui origini sarebbero rinvenibili nella guerra civile algerina degli anni ’90 e che nel 2007 assunse tale denominazione per sancire ufficialmente la sua affiliazione ad al-Qaida. Un’organizzazione prevalentemente attiva in Algeria, Mauritania, Niger e Mali, paese quest’ultimo nel quale è stata tra i protagonisti di un conflitto destabilizzante tra il 2012 e il 2013 che ha allarmato l’Europa e in particolare Parigi, timorose della nascita di un santuario jihadista con il mirino puntato verso il Vecchio Continente. In Mali opera anche il Movimento per l’Unicità e il Jihad nell’Africa Occidentale (MUJAO), nato da una costola di AQIM e interessato ad espandere l’azione jihadista nell’Africa Occidentale. C’è poi il fronte del Corno d’Africa, dove operano i miliziani di al-Shabaab che terrorizzano la Somalia e hanno realizzato attentati anche in Uganda e in Kenya, tra cui quello al Westgate Mall di Nairobi nel settembre 2013.

AQIM, al-Shabaab, AQAP e la stessa al-Qaida avrebbero inoltre avuto contatti con Boko Haram – che in lingua hausa significa ‘l’educazione occidentale è peccaminosa’ - organizzazione terroristica nata nel 2002, attiva in Nigeria (ma ha anche sconfinato in Camerun) e il cui nome ufficiale è Jama'atu Ahlis Sunna Lidda'Awati Wal-Jihad, che vuol dire ‘Popolo per la Propagazione degli Insegnamenti del Profeta e del Jihad’.

La causa jihadista interessa anche la regione nord-caucasica controllata dalla Russia: l’Emirato del Caucaso è riconosciuto come organizzazione terroristica sia da Mosca che da Washington, ha cooperato con al-Qaida e segue con particolare interesse le evoluzioni del non lontano teatro di guerra siriano, in cui interessanti orizzonti si sono aperti per il jihad. Proprio nel contesto siriano - e in quello del vicino Iraq - si sono registrati preoccupanti sviluppi. In Siria, attratti dal messaggio diffuso dai predicatori, migliaia di volontari da ogni parte del mondo. In Siria, attratti dal messaggio diffuso dai predicatori, migliaia di volontari da ogni parte del mondo – tra cui moltissimi europei – combattono il jihad contro il regime del dittatore alawita Bashar al-Assad: non più dunque la guerra contro il ‘nemico lontano’ americano e occidentale, ma quella sunnita contro il ‘nemico vicino’. Nella complessa costellazione delle forze attive in Siria, si è distinta per l’efficacia delle sue azioni Jabhat al-Nusra, anch’essa affiliata ad al-Qaida ed inserita dagli USA – pure apertamente ostili al regime di Damasco – tra le organizzazioni terroristiche a fine 2012. Nell’aprile del 2013 giunse l’annuncio della sua fusione con il gruppo iracheno dello Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS), stabilitosi nel 2006 come successore di al-Qaida in Iraq e poi allargatosi alla Siria con la guerra civile: a dare la notizia fu il leader dell’ISIS Abu Bakr al-Baghdadi, ma Jabhat al-Nusra, pur confermando l’esistenza di rapporti tra le due forze, ribadì la sua fedeltà ad al-Qaida e alla causa siriana. L’ISIS ha tuttavia proseguito con le sue iniziative, estendendo la sua influenza su territori sempre più vasti e sconfiggendo più volte il debole esercito di un Iraq profondamente diviso dalle politiche settarie del premier sciita Nuri al-Maliki, fino alla proclamazione del califfato islamico a cavallo tra lo Stato iracheno e la Siria. I nuovi scenari mettono in guardia l’Occidente e i vicini medio orientali, preoccupati dall’avanzata di un gruppo – che si è ribattezzato semplicemente Stato Islamico (IS) – che ai proclami del jihad accompagna un progetto politico ben più definito che in passato, mirante ad incidere nel tessuto dello status quo geopolitico della regione. Un’avanzata che ha costretto i cristiani alla fuga e in cui centinaia di yazidi considerati ‘adoratori di Satana’ sono stati massacrati. Ai raid degli USA cominciati nell’agosto del 2014, l’IS ha risposto con la decapitazione degli ostaggi statunitensi James Foley e Steven Sotloff, all’annuncio del sostegno britannico ai peshmerga curdi in funzione anti-Stato Islamico, l’organizzazione ha reagito con l’uccisione di David Cawthorne Haines; in Algeria la formazione Jund al-Khilafah ha rotto con al-Qaida giurando fedeltà al califfo al-Baghdadi e uccidendo il 24 settembre l’ostaggio francese Hérve Gourdel; nelle Filippine è stata Abu Sayyaf a minacciare l’uccisione di due tedeschi. E mentre al-Qaida appare più debole, sempre più formazioni uniscono la loro causa a quella del califfato, un polo di riferimento di giorno in giorno più importante per la galassia jihadista. A inizio settembre 2014, al-Zawahiri ha rilanciato con l’annuncio della nascita di un ramo di al-Qaida nel Subcontinente indiano, che dovrebbe agire dall’India fino al Myanmar: secondo gli esperti, anche un messaggio allo Stato Islamico rispetto a cui al-Qaida ha perso terreno. Nel 2015 l’IS si è ulteriormente rafforzato, grazie alla propaganda e all’utilizzo dei nuovi mezzi di comunicazione. Non solo gli uomini del califfato hanno continuato a decapitare i prigionieri e a pubblicare le esecuzioni sul web, ma tra le loro file è andato crescendo il numero dei foreign fighters, combattenti stranieri che in diversi casi sono risultati cittadini europei o statunitensi e il cui ipotetico ritorno entro i confini dei paesi di provenienza non lascia tranquille le cancellerie occidentali. I timori dell’Occidente sono inoltre aumentati all’indomani degli attentati di Parigi di inizio gennaio 2015, con l’assalto alla redazione del settimanale satirico francese Charlie Hebdo – questo rivendicato tuttavia da AQAP – e l’attentato al supermercato kosher da parte di Amedy Coulibaly, appartenente all’IS. L'attentato più grave degli ultimi anni è avvenuto nuovamente a Parigi il 13 novembre dello stesso anno, rivendicato dall'IS, dove i morti e i feriti sono stati centinaia, in cui sono state colpite simultaneamente varie sedi della società civile, come lo stadio e il teatro Bataclan, simboli della libertà occidentale. L’Europa guarda inoltre con crescente preoccupazione alla sponda Sud del Mediterraneo, verso la Libia, dove miliziani affiliati allo Stato islamico hanno trovato importanti spazi d’azione sfruttando la cronica instabilità politica del paese.

La galassia jihadista e i paradigmi del jihadismo paiono dunque in via di rimodulazione e ridefinizione, adattandosi alle contingenze geopolitiche e modificandole allo stesso tempo.



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L'ALBERO DEL PANE

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Artocarpus J.R.Forst. e G.Forst, 1775, o albero del pane, è un genere di alberi e arbusti della famiglia delle Moracee.

Il nome Artocarpus deriva dal greco artos ( = pane) e karpos ( = frutto) e fa riferimento al gusto dei frutti dopo la cottura. Un'origine simile ha anche il nome volgare albero del pane, che si applica in senso stretto alla specie Artocarpus altilis e in senso ampio a tutte le specie del genere. L'antico nome con cui veniva chiamato il frutto in sanscrito era "panasa", da cui deriva l'italiano panassa, con cui ci si riferisce a tutti i frutti delle varie specie di Artocarpus.

Molte specie di Artocarpus sono coltivate nelle regioni tropicali dell'Asia e dell'Oceania; la coltivazione di A. altilis e A. heterophyllus si è estesa anche al Sudamerica.

Comunemente, i frutti - ricchi di carboidrati - vengono consumati cotti, ma in alcuni casi (p.es. A.heterophyllus) sono apprezzati anche crudi. Il frutti dell'albero del pane e di altre specie della famiglia Artocarpus, (a parte quelli del genere Heterophyllus), sono, a causa dell'alto contenuto di amidi, completamente indigesti e purganti allo stato crudo.

Il frutto commestibile, che ha le dimensioni di un piccolo melone, ha una scorza ruvida e coriacea e una polpa bianca e farinosa che può essere preparata e consumata in diversi modi. L'albero del pane raggiunge al massimo 12 m d'altezza e ha lunghe foglie lucide, coriacee e profondamente incise; i fiori unisessuali sono portati dalla stessa pianta su racemi separati.
Nel Pacifico i frutti del pane sono un alimento fondamentale per la popolazione locale.
Nei paesi tropicali si trova un altro tipo - Artocarpus heterophyllus - chiamato Jackfrut - che proviene dal'Asia ma già nel XVI secolo è stato portato dai Portogalli nel Brasile. Il suo frutto è molto più grande, anche 1 m lungo e pesa 50 kg.



Il suo frutto contiene il 20% d'amido e 1-2% di albumina, si può cuocere, friggere, arrostire al forno o seccare.
I semi dei frutti maturi - le noccioline del pane - si mangiano tostate.
Dalla corteccia interna si ricavano fibre tessili; con il legno, tenero e leggero, si costruiscono mobili e piccole imbarcazioni, mentre dalla linfa si ottengono preparati impermeabilizzanti.

L'albero del pane cresce in alcune aree tropicali del mondo, che comprendono le Hawaii, Samoa e i Caraibi. Si tratta di un alimento ricco di carboidrati e povero di grassi. Conterrebbe da solo più potassio di 10 banane. Per le sue caratteristiche nutrizionali il frutto dell'albero del pane rappresenta un alimento base per le popolazioni locali, soprattutto nei cosiddetti Paesi in via di sviluppo.

Il frutto dell'albero del pane sfamerà il mondo? Ad ipotizzarlo è il National Tropical Botanical Garden, secondo cui più dell'80% della popolazione mondiale che soffre la fame vive in regioni tropicali o subtropicali, l'ambiente perfetto per la coltivazione e la crescita dell'albero del pane. Questi alberi sarebbero molto facili da coltivare e garantirebbero raccolti carichi di frutti per decenni.

E' bene inoltre ricordare che la coltivazione di nuovi alberi, soprattutto se condotta in modo sostenibile, rappresenta la creazione di nuovi polmoni verdi per il nostro Pianeta. Sarebbe dunque più vantaggiosi dal punto di vista ambientale nutrire i popoli grazie a frutti che crescono sugli alberi, piuttosto che espandere i terreni da destinare all'agricoltura intensiva con l'abbattimento di boschi e foreste.

Organizzazioni come Global Breadfruit e Breadfruit Institute hanno dunque iniziato a dedicare un ampio progetto alla coltivazione dell'albero del pane nelle aree del mondo in cui la necessità di sfamare la popolazione risulta maggiore. Ogni volta che un albero del pane viene piantato, si garantisce una nuova possibilità di procurarsi del cibo.

Il Breadfruit Institute ha lavorato per riprodurre nuove piante a partire dagli alberi del pane delle Hawaii, che verranno destinate alle aree più povere del mondo. L'operazione ha già avuto inizio ad Haiti, dove i nuovi alberi del pane stanno sfamando almeno 1000 bambini al giorno, grazie all'operato di Trees That Feed Foundation.

L'alimento che per secoli ha rappresentato la base dell'alimentazione degli abitanti delle Hawaii e della Polinesia ora potrebbe contribuire a sfamare i più poveri in modo sostenibile. L'albero del pane è un vero e proprio dono della Terra, come ricorda un'antica leggenda hawaiana, secondo cui una divinità di nome Ku aveva salvato la propria famiglia dal morire di fame sotterrandosi e rinascendo come albero carico di frutti.

Esistono poi le consuete applicazioni collaterali dei frutti: marmellate, frutta secca, canditi ecc.

Artocarpus è usato anche per l'alimentazione degli animali domestici, ai quali vengono forniti i frutti (o gli scarti dei frutti) e talvolta anche le foglie.

Nelle regioni tropicali Artocarpus trova anche impiego talvolta come pianta ornamentale.

Infine, alcune specie sono apprezzate per le proprietà medicinali del lattice, che è antimicotico e astringente.



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sabato 19 marzo 2016

LA PELLICOLA

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In cucina la pellicola trasparente in materiale plastico si affianca ad altri tipi di materiale a rotolo ad uso domestico come la carta da forno e la pellicola di alluminio per confezionamento. Viene utilizzata sia per avvolgere porzioni di cibo che per sigillare contenitori, eventualmente anche in vista del loro congelamento.

Le prime pellicole per alimenti vennero prodotte utilizzando il cellophane, un materiale plastico trasparente la cui sintesi fu scoperta all'inizio del XX secolo. Nei decenni successivi ad esso vennero affiancati, per la produzione di pellicole alimentari, vari altri polimeri organici come il polietilene. A partire dagli anni Trenta del Novecento si cominciò a produrre il PVC, che nella restante parte del XX secolo ebbe il predominio tra i materiali utilizzati allo scopo grazie alla sua economicità e alla facilità d'uso.

Anche a causa della riconosciuta pericolosità degli additivi usati nella produzione del film in PVC negli ultimi anni è notevolmente aumentata la quota di pellicole per alimenti prodotti con altre materie plastiche tra le quali, in particolare, il polietilene.

Da vari anni è noto che l'uso di alcune tipologie di pellicole plastiche può causare la contaminazione degli alimenti conservati con sostanze nocive alla salute. Sotto accusa sono in particolare gli ftalati, una classe di sostanze che viene addizionata al PVC per migliorarne la flessibilità e la modellabilità. Il rischio di contaminazione è maggiore negli alimenti che contengono una notevole quantità di lipidi, nei quali gli ftalati sono più facilmente solubili. La percentuale di ftalati che può essere contenuta nelle pellicole è stata molto limitata dalla legislazione vigente, e varie ditte commercializzano film a base di polietilene nei quali il PVC è del tutto assente.
A leggere i risultati di numerose ricerche sono responsabili di alterazioni ormonali, riduzione della fertilità maschile, malformazioni a livello fetale e bioaccumulo ai danni di fegato e reni. Ci sono addirittura dati che risalgono già al lontano 1971: i laboratori dell'Istituto oncologico di Bologna avviarono un progetto a lungo termine per conoscere approfonditamente gli effetti di questa sostanza. Dopo anni la conclusione: il monocloruro di vinile è un cancerogeno multipotenziale, cioè capace di colpire organi diversi e di sviluppare una varietà di tumori.
I test per verificare se i materiali usati per i contenitori cedono molecole nocive ai cibi che ricoprono non sono effettuate direttamente su formaggi o yogurt ma ricorrendo a "solventi" che simulano il loro comportamento chimico. I solventi sono messi a contatto con il contenitore incriminato alla temperatura stabilita e per un periodo che è al massimo di dieci giorni. A questo punto, ricorrendo a diverse tecniche, si misura la quantità totale di molecole che dal contenitore passano al solvente. E letti i risultati non c'e da stare allegri.



È buona norma evitare di coprire l'alimento quando esso sia ancora caldo anche in modo da impedire la formazione di condensa all'interno della pellicola; è inoltre del tutto sconsigliato utilizzare le pellicole nel forno a microonde.

Oltre che nella conservazione domestica degli alimenti le pellicole alimentari sono massicciamente usate nel commercio e in particolare nella GDO per proteggere vari tipi di alimenti freschi destinati alla vendita quali carni, formaggi, verdure e frutta. Anche nel campo del catering e della ristorazione essa viene usata per proteggere cibi quali piatti pronti o panini.

Pellicole per alimenti, sacchetti di biscotti, bottiglie dell'acqua, vaschette delle yogurt... La lista dei film plastici che la famiglia tipo porta ogni giorno in casa dopo aver fatto la spesa.
E se andiamo a tirare due conti si vedrà che 100 euro di acquisti equivalgono a due chilogrammi di plastica. Se, poi, tracciamo il bilancio di fine mese l'imballaggio arriverà a toccare quota dodici chilogrammi. E se moltiplichiamo per milioni di famiglie le cifre salgono vertiginosamente, indicando che occorre iniziare a preoccuparsi seriamente del fenomeno.
Prima di tutto per l'inquinamento ambientale e le difficoltà di riciclo, poi per il fatto che alcune componenti, come il Pvc, possono scatenare non poche patologie a carico degli ignari consumatori.

"Il trionfo della plastica, a partire dal primo dopoguerra - puntualizza Andrea Masullo, responsabile rifiuti del Wwf - sta ad indicare che l'aspetto ambientale del problema è stato assurdamente sottovalutato. Basti pensare che di plastica ce ne sono addirittura 50 tipi e che il recupero ha successo solo se si è in grado di separare le diverse tipologie e se dalla plastica usa e getta si passa a quella riciclabile".

In genere gli imballaggi sono suddivisi in tre categorie. I primari cioè quelli destinati alla vendita al dettaglio di quei prodotti che dall'originaria funzione protettiva sono diventati autentici oggetti di moda. I secondari impiegati durante la distribuzione delle merci, per raggruppare più unità di prodotto (ad esempio la pellicola che veste le bottiglie di plastica).
I terziari, che entrano poco a contatto con il consumatore, sono invece destinati al trasporto di notevoli quantità di merce.
Nel mondo la produzione complessiva è valutata intorno agli 863 miliardi di euro con gli Stati Uniti leader indiscussi (30%) del settore e l'Europa occidentale al posto d'onore (19%).

Dare la preferenza a prodotti non rivestiti di plastica: ad esempio è importante per le bevande, i grassi e gli oli in genere. Tanto più per frutta e verdura.
Per migliorare la conservazione degli ortaggi in frigorifero, il tradizionale film di plastica può essere sostituito con efficacia da un canovaccio appena inumidito.
Lo stesso si può fare per i formaggi. In questo modo si evita la disidratazione degli alimenti allontanando allo stesso tempo ogni rischio di contaminazione.
Inoltre, vale la pena ricordare di non lasciare al sole o in prossimità di fonti di calore bottiglie e simili: la plastica risente della temperatura e più è alta più quest'ultima cede molecole.
Infine sarebbe consigliabile verificare quanto tempo è passato dal momento in cui è stato confezionato il prodotto. Quello che è un semplicissimo accorgimento non è però sempre attuabile perché spesso sulle etichette non c'è la data di confezionamento accanto a quella di scadenza.



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